La sentenza e il carcere.
Profeta viene trasportato nel carcere “Due Palazzi” di Padova. Dopo due mesi di processo e quattordici udienze, viene condannato all’ergastolo e a due anni di isolamento.
Elena Martello, il suo avvocato, decide di ricorrere in appello, chiedendo che vengano effettuate delle perizie psichiatriche.
Durante la sua permanenza in carcere, Profeta viene sottoposto a varie analisi psichiche, si tenta di comprendere cosa l’abbia portato a uccidere. Ne viene fuori una personalità affetta da manie di grandiosità, compiaciuta dell’attenzione che la sua vicenda sta riscuotendo. Profeta gestisce i colloqui indirizzandoli dove più gli piace, discorre di sé e della sua vita in termini sublimi; ma contrapposta a questa magnifica e inesistente realtà c’è la vita vera, fatta di fallimenti amorosi e lavorativi, e soprattutto segnata dal forte senso di inferiorità nei confronti del fratello.
È questa continua frustrazione delle sue aspirazioni di eccellenza che l’ha spinto all’omicidio. Ma la sensazione di onnipotenza non lo abbandona nemmeno in carcere. Profeta non si arrende, prova un tentativo di fuga con una limetta nascosta nel portaocchiali. Con questo piccolo arnese tenta di segare le sbarre del bagno, di notte, fino a quando non viene scoperto. Viene per questo trasferito, il 2 luglio, nel supercarcere di Voghera.
Davanti ai magistrati, dichiara ancora la sua innocenza; durante un colloquio col noto psichiatra Vittorino Andreoli, però, decide di confessare la sua colpevolezza. Ammette di aver ucciso, ma non riesce a capacitarsene: è andato contro i propri principi, la propria moralità!
«È come se fossi stato preda del Male, di un’entità che si era imposta e guidava il mio corpo e le mie azioni... I miei pensieri procedevano senza la mia partecipazione, come se qualche cosa scorresse su di me.»
Si evince dalle sue confessioni che ha compiuto i delitti in una chiara condizione maniacale, sopraffatto da deliri che avevano preso il sopravvento sull’Uomo; perduto il contatto con la realtà, non era più padrone di se stesso.
Profeta ricercava l’Uomo assoluto, il supremo capace di donare e togliere la vita ai suoi simili.
Le sentenze di Appello e Cassazione, comunque, confermano l’ergastolo.
Egli dichiara: «Era meglio la pena di morte.»
La morte.
16 luglio 2004.
Michele Profeta sta sostenendo il suo primo esame universitario nella sala avvocati del carcere. Conosce bene l’argomento, sembra perfettamente a suo agio.
All’improvviso però inizia a rantolare e si accascia.
È l’ennesimo e l’ultimo fallimento, arrivato mentre stava rispondendo alle domande della commissione con tranquillità. Forse, la stessa tranquillità che aveva dimostrato nel freddare le sue povere vittime…
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