Donato Bilancia, la storia del serial killer

Nome completo: Donato Bilancia

Nato il: 10 luglio 1951

Morto il: 17 dicembre 2020

Omicidi accertati: 17

Modus operandi: vario, a seconda del tipo di delitto.

Ultimo aggiornamento del dossier: 21 novembre 2021


Donato Bilancia: l’infanzia

Donato Bilancia nasce a Potenza, il 10 luglio del 1951. Suo padre lavora come impiegato all’Inam, sua madre, invece, come molte altre donne in questi anni, è casalinga; ha un fratello di diciotto mesi più grande di lui.

Nel 1954 la famiglia si trasferisce ad Asti, di qui poi a Genova. Nel capoluogo ligure, Bilancia inizia a frequentare le scuole elementari, mentre a casa il rapporto tra i genitori va lentamente, ma progressivamente, deteriorandosi. A lui e al fratello capita spesso d’essere picchiati per insignificanti trasgressioni alle regole dettate dal padre.

È in questo periodo che il piccolo Donato comincia a mostrare i primi segni di disagio. Alla comparsa dell’enuresi, però, i genitori reagiscono in maniera del tutto inappropriata, mortificandolo di continuo: il materasso bagnato viene messo in bella mostra su un poggiolo, cosicché i dirimpettai possano vederlo. Bilancia ne soffre molto, e anche a distanza di anni ricorderà questi episodi con enorme dolore.

In una lettera scritta allo psichiatra Vittorino Andreoli (con cui dopo l’arresto inizierà una lunga corrispondenza), infatti, scriverà: «Ricordo che morivo di vergogna anche perché nell’appartamento di fronte abitava un signore con una o due figlie (non ricordo bene) che avevano all’incirca la mia età e questo per me era ancora più insopportabile. A volte mi svegliavo di notte perché mi accorgevo di aver fatto la pipì nel letto e cercavo di asciugarla con il calore del corpo, in modo che al mattino la mamma non procedesse all’esposizione esterna.»

La manifestazione del suo malessere interiore, dunque, non soltanto viene ignorata, ma addirittura è derisa e punita con una pubblica messa alla gogna: ciò non può far altro che innestare nuove insicurezze nella sua già fragile personalità.

Il vilipendio assurdo a cui è sottoposto raggiunge l’apice durante le vacanze estive, trascorse ogni anno a Potenza, in casa di una sorella del padre. Al momento di andare a letto, quest’ultimo, con la scusa di aiutarlo a svestirsi, gli tira giù le mutandine dinanzi alle tre cugine e mostra loro il suo pene poco sviluppato. «In quel momento, io mi attorcigliavo su me stesso, cadendo in ginocchio sul letto, morto di vergogna... Questo è stato l’evento che mi ha crocefisso per il resto della vita» dirà Bilancia.

Gli anni delle scuole elementari trascorrono segnati da una serie di umiliazioni, ma nonostante questo Donato riesce a terminare le cinque classi ottenendo anche dei buoni risultati. Il suo rendimento scolastico cala invece, improvvisamente, durante le medie: piuttosto che studiare preferisce andare in piscina e gli altri ragazzini che frequenta lo iniziano al furto, attività che diventerà in futuro l’unica fonte di guadagno e di “soddisfazioni”.

Raggiunta a fatica la terza media, Bilancia si scopre ossessionato dal denaro: rincasa tardi per dedicarsi alla vera e propria carriera da ladro che ha intrapreso. Nonostante le botte, non cambia atteggiamento, anzi, avendo preso l’abitudine di chiudersi in camera dei genitori per sfuggire al battipanni, inizia a sottrarre piccole somme in casa senza che nessuno se ne accorga.
I soldi trafugati li spende con le prostitute, oppure li perde a carte.

A quattordici anni, stanco del proprio nome, a suo modo di vedere brutto e insignificante, decide che d’ora in poi si farà chiamare Walter.
Riesce a ottenere il diploma dopo due bocciature, s’iscrive al liceo nautico e l’abbandona nel giro di qualche mese, iniziando a lavorare. Cambierà parecchi mestieri: meccanico, barista, fornaio, ragazzo delle consegne.


Walter Bilancia, alias Arsenio Lupin

I primi guai di Bilancia con la legge arrivano a sedici anni: ruba le Alfa Romeo Giulietta Super per impossessarsi delle autoradio e rivendersele. Viene scoperto e arrestato; poiché è ancora minorenne, viene rinchiuso per il periodo estivo in un istituto di rieducazione. L’incontro con altri giovani delinquenti non fa altro che indirizzarlo ancor di più verso il crimine.

Due anni dopo, infatti, finisce in galera. Un maldestro tentativo di furto in una chiesa si conclude con l’arresto del suo complice, che fa il suo nome e lo fa arrestare. Anche in questo caso, però, l’esperienza carceraria si rivela per lui soltanto fonte di nuove e cattive amicizie.

Dopo questo primo episodio, comincia un lungo periodo fatto di colpi andati male, arresti, condanne e rilasci. Bilancia pare non riuscire a stare lontano dalle prigioni: addirittura, sconta due anni e mezzo di reclusione anche in Francia.

Il cambio di passo da semplice topo d’appartamento a vero e proprio professionista del furto avviene nel 1984, grazie a un incontro casuale con un esperto ladro. L’uomo diventa in breve tempo il suo maestro e gli insegna tutti i trucchi del mestiere.

Nella carriera criminale di Bilancia si registra dunque un “salto di qualità”: i numerosi colpi che mette a segno all’estero gli fruttano una disponibilità economica così vasta da sembrare inesauribile, nonostante le considerevoli somme perse al gioco. I debiti contratti coi gestori delle bische sono poco più che fastidi: basta rubare un po’ di più e tutto si risolve.

Falsi amici prendono a frequentarlo unicamente per interesse; qualcuno addirittura dice: «Basta che gli vai dietro, a quello lì, raccogli quello che perde dalle tasche e diventi ricco.»

Negli anni successivi è vittima di tre disgrazie: il suicidio del fratello, nel 1987, un grave incidente, da cui esce più morto che vivo, e il fallimento del negozio che aveva comprato.
Reagisce nell’unico modo che conosce: ruba, gioca e va a letto con ragazze a pagamento.

La sua vita, si può dire, si condensa in queste sole attività, ma per lui va bene così, anche se a volte ha l’impressione di non aver combinato niente di buono e di non aver costruito nulla dal punto di vista affettivo.
«Andava tutto bene» dirà. «Fino al giorno del tradimento del mio amico fraterno Maurizio. L’ennesimo, e il più inaspettato.»


Il tradimento

Bilancia, come egli stesso ammetterà, ha sempre avuto la tendenza a ricompensare i favori ricevuti in maniera spropositata: dà tre in cambio di uno, e chiunque gli dimostri un minimo di simpatia e di considerazione diventa per lui un “amico fraterno”. Vittorino Andreoli parlerà a tal proposito di un’enorme svalutazione del sé, che deve essere poi compensata con gesti di generosità altrettanto enorme.

Ovviamente, la scoperta dell’errata valutazione delle persone che gli gravitano attorno giunge inesorabile, a volte dopo pochi giorni, a volte invece dopo anni. A ogni “tradimento”, però, Bilancia chiude un capitolo e ne apre un altro, comprando nuove amicizie che non sa conquistarsi, regalando e offrendo, animato dal desiderio dirompente di sentirsi accettato e di uscire dalla solitudine che ogni sera lo attende al ritorno a casa.

Maurizio Parenti è stato l’amico più fidato, quello su cui non ha mai avuto dubbi, quello da cui non si sarebbe mai aspettato di essere pugnalato alle spalle.
Almeno fino alla sera in cui capisce d’essere stato usato di nuovo.

Siamo all’inizio dell’estate del 1997. Bilancia sta giocando a dadi, quando a un tratto Maurizio lo raggiunge al tavolo e gli chiede il favore di accompagnarlo alla bisca in cui lavora come buttafuori. Bilancia molla tutto e lo segue.

Giunto nella bisca, constata che lì si gioca forte, proprio come piace a lui, e decide allora di provare qualche mano. Vince parecchi soldi. Le volte successive in cui ci torna, però, perde molto di più, quasi cinquecento milioni di lire in quattro sedute.

La cosa non lo preoccupa eccessivamente: in questo periodo gli passano per le mani cifre da capogiro, svariati miliardi. Il raggiro emerge poche sere dopo, quando, in bagno, sente Maurizio dire a Giorgio Centenaro, il proprietario della casa da gioco: «Hai visto in che modo sono riuscito ad agganciarlo e a portarlo qui da noi?»
Per Bilancia è un colpo durissimo. Torna a casa e passa la notte a piangere, si sente “il più scemo del mondo”.

Nonostante cerchi nei giorni seguenti di cancellare l’episodio come già ha fatto mille altre volte, il tradimento di Maurizio lo tormenta, diventa un’idea fissa che lo induce a continui e fallimentari bilanci della propria vita.

Incontrando Parenti e Centenaro, che continuano a trattarlo come un amicone, sente l’odio aumentare incontrollato, e il desiderio di ucciderli si sedimenta poco alla volta nella sua mente.
Per la prima volta nella sua vita, Bilancia sente il bisogno di reagire.


Il primo della lista: Giorgio Centenaro

Ormai schiavo dell’idea di vendicarsi, il 14 ottobre del 1997 Bilancia imbocca, forse senza esserne consapevole, una strada che lo porterà a uccidere diciassette persone e a diventare il serial killer italiano che ha mietuto più vittime.

Dopo essersi appuntato il numero di targa dell’auto di Centenaro, si reca agli uffici dell’ACI e risale all’indirizzo dell’uomo, poi lo aspetta sotto casa. Sono le quattro del mattino quando lo vede parcheggiare e dirigersi verso il portone. Lo raggiunge alle spalle e gli dice: «Ciao, come stai? Adesso andiamo a casa tua e ci facciamo una partitina, io e te.»

Arrivati nell’appartamento, gli ordina di togliersi tutti i vestiti, tranne le mutande e la canottiera. Bilancia sa che usare la pistola non sarebbe saggio: Centenaro abita in una mansarda e il rumore dello sparo si sentirebbe in tutto il palazzo.

Lo lega allora con del nastro adesivo, poi gli tappa naso e bocca con le mani. Ogni tanto gli permette di respirare, intanto gli spiega perché lo stia facendo. Alla fine, senza esitazioni, lo soffoca. Si accerta che sia morto dandogli un calcio nei testicoli.
Apre la porta e se ne va.


Il secondo della lista: Maurizio Parenti

Come già ha fatto con Centenaro, Bilancia attende che Parenti rientri a casa per mettere in pratica il suo piano. Fa finta di passare per caso in macchina da quelle parti, e nel vederlo gli dice: «Ho delle cose da farti vedere, degli orologi, se ti può interessare.» Parenti, che è un collezionista, lo invita a raggiungerlo. Parcheggia, allora, e scende dall’auto con in mano un sacchetto, all’interno del quale, invece degli orologi, ci sono guanti e nastro adesivo.

Entrati nel portone, estrae la pistola e imbavaglia l’amico. Lo conduce all’interno dell’appartamento e lo lega a una sedia in cucina, si fa dire dov’è che tiene i soldi.

La moglie di Parenti, Carla Scotto, si sveglia e si accorge di ciò che sta accadendo. Viene immobilizzata anche lei.

Bilancia si appropria del contenuto della cassaforte (tredici milioni e mezzo in denaro, una scatolina piena di orologi, assegni) soltanto per sviare le future indagini, getterà poi ogni cosa tranne i contanti.

Parenti e la moglie sperano intanto che col furto finisca tutto, che Bilancia abbia solo bisogno di soldi, ma quest’ultimo li conduce in camera da letto e inizia a parlare. Se sta agendo in questo modo un motivo c’è, e Maurizio lo conosce bene.

Parenti comprende di non avere speranze e poggia il capo sulla pancia della moglie. Bilancia gli stende sopra il copriletto, poi spara due volte. Alla donna destina un solo proiettile, al petto.
Prende la borsa con l’attrezzatura e gli oggetti sottratti e lascia l’appartamento.


Furti col morto

Uccisi Centenaro e Parenti, Bilancia ha ottenuto la propria vendetta, ma una volta provata l’esperienza dell’omicidio non riesce più a controllarsi: la violenza che ha scoperto essere parte integrante della sua personalità ha bisogno di venir fuori e prevarica ogni freno razionale.

«Penso che in me convivano due personaggi, che chiamerò B1 e B2» dirà ad Andreoli. «Fino al giorno del mio primo delitto, fortunatamente, B1 è sempre riuscito a controllare, anche se parzialmente, B2, quello più trasgressivo... Nei mesi in cui ho commesso gli omicidi era B2 a dominare su B1...»

Il 27 ottobre 1997 segue Bruno Solari fino a casa, con l’intento di rapinarlo. Poco dopo che l’uomo è salito nel proprio appartamento, citofona e con la scusa di avere una raccomandata da far firmare si presenta alla porta e viene invitato a entrare. «Abbiate pazienza» dice a lui e alla moglie, «questa è una rapina.»

Quando Maria Luigia Pitto inizia a urlare, perde la testa e la uccide. Spara poi anche al marito. Se ne va senza toccare niente, e ha il sangue freddo per fischiettare con noncuranza di fronte a una ragazza che incrocia scendendo le scale.

Il duplice omicidio è stato lo sfortunato epilogo della rapina andata male, ma ciò che accade pochi giorni dopo conferma che Bilancia non ha più considerazione per la vita altrui.

Non avendo soddisfatto il proprio bisogno urgente di soldi, egli decide infatti di derubare il cambiavalute Luciano Marro. Ne studia i movimenti per alcune sere e si accorge che l’uomo va a gettare l’immondizia lasciando aperto il blindato. Il 13 novembre gli sottrae circa quarantacinque milioni di lire, poi l’uccide, per evitare che possa testimoniare contro di lui. Coi soldi in tasca, s’allontana dal luogo del delitto.

Siamo giunti così a sei vittime: tre uccise per vendetta, tre per soldi. Da questo punto in poi, però, qualcosa cambia: l’omicidio diventa un fine e Bilancia ammazza perché non può più farne a meno.


Guardiani e prostitute, metronotte e treni in corsa

Gennaio 1998: sta guardando la televisione, si alza dal divano per andare in bagno e decide che deve assassinare qualcuno. Esce per individuare un bersaglio, sceglie Giangiorgio Canu, guardiano notturno. Lo segue per un paio di sere per capirne le abitudini e gli spostamenti, poi, la notte del delitto, lo aspetta nel portone della palazzina che sorveglia. Quando lo vede uscire dall’ascensore gli mette il giubbotto sulla testa e gli spara. Gli ruba il portafoglio, ma poi lo butta.

Passa poco più di un mese. Il 9 marzo 1998 si reca a Cogoleto, a trovare suo padre; dopo la visita carica in auto Stella Truya, una prostituta. La conduce in una galleria, qui hanno un rapporto sessuale, quindi la invita a scendere su una piazzola. «Guarda il mare» le dice. Le mette un asciugamano sulla testa, spiegando che non vuole che lei veda la sua targa. Le spara un colpo alla nuca, raccoglie l’asciugamano, ritorna all’auto e parte.

La sua corsa all’assassinio è ormai lanciata: in due mesi uccide altre nove persone.

Il 17 marzo 1998 tocca a Ludmilla Zubckova, passeggiatrice di Albenga. Bilancia la raccoglie sul rettilineo della cittadina ligure e la convince ad andare a casa sua, con la promessa di un milione di lire. Dopo una fellatio la fa scendere dall’auto e la fa voltare. Spara anche a lei alla nuca.

Enzo Gorni, cambiavalute, muore tre giorni dopo, il 20 marzo 1998. Come già accaduto con Luciano Marro, Bilancia entra nel blindato per rapinarlo, poi lo uccide; dopo l’omicidio va a giocare al casinò di Sanremo.

A Novi Ligure, il 24 marzo 1998, colpisce due metronotte: Candido Randò e Massimiliano Gualillo. Dopo aver individuato una villa con un cancello dotato di apertura a telecomando, che da esperto ladro sa forzare facilmente, si reca sul posto col transessuale John Zambiano, noto anche come Juli Castro. Lungo il vialetto che porta alla casa, parcheggia l’auto accanto a un albero, in modo che la portiera del lato passeggero non possa essere aperta. I due guardiani giungono a controllare. Bilancia spiega loro che ha trovato il cancello aperto e si è appartato con Juli, ma il viado, invece, avendo notato la pistola, dichiara che voleva usargli violenza. Uno dei sorveglianti dice all’altro di chiamare la centrale.

A questo punto Bilancia spara a entrambi, poi tira due colpi al ragazzo che s’è nascosto dietro un cespuglio. I metronotte non sono ancora morti, li finisce con un proiettile ciascuno. Solo la vittima designata si salva: spinto forse dall’istinto di sopravvivenza, Juli Castro attacca e costringe Bilancia a una colluttazione. Alla fine il killer gli spara tre colpi, senza riuscire a ucciderlo. Da questo tentato omicidio scaturirà il primo identikit dell’assassino che sta terrorizzando la Liguria.

Messo in guardia dal fallimento dell’ultima aggressione, Bilancia decide di rubare un’auto per commettere il delitto successivo: invece della sua solita Mercedes, il 29 marzo 1998 usa una Opel Kadett per portare a Cogoleto Terry Asodo, prostituta nigeriana. Dopo il rapporto sessuale, la fa scendere dalla macchina: la ragazza forse lo vede prendere l’arma e cerca di scappare. Lui le spara, poi termina l’opera con un colpo alla testa.

Alcuni giorni dopo, su un giornale raccoglie un’inserzione che nasconde un’attività di prostituzione. Telefona e si reca all’indirizzo con l’intenzione di uccidere: ci va due volte, la prima per studiare il campo, la seconda per l’esecuzione. La donna, però, dinanzi alla pistola puntata alla testa scoppia in lacrime e chiede pietà: ha un bambino di due anni. Bilancia non ce la fa a premere il grilletto. Scappa lasciando Luisa Cimminelli viva: una testimone fondamentale.

Passano solo altri due giorni e siamo al 12 di aprile. Bilancia sale sul treno La Spezia-Venezia. Individua una donna sola in uno scompartimento e attende nel corridoio finché lei non si reca in bagno: la segue e apre la porta con una chiave falsa. Il suo rituale è ormai consolidato: giacca sulla testa e colpo di pistola. Le prende il biglietto, perché non ne ha uno, e attende venti minuti in bagno col cadavere finché il pendolino non ferma a Voghera. Scende e aspetta un altro treno per tornare a Genova.

Il delitto mette in allarme l’opinione pubblica ancora di più, in quanto la vittima è stata scelta a caso e al di fuori di ogni possibile “schema”. Non sono più soltanto le prostitute, o i cambiavalute o i metronotte, a essere in pericolo. Elisabetta Zoppetti era una persona comune, la prossima vittima potrebbe essere chiunque.

Ma Bilancia il giorno dopo, a Pietra Ligure, sceglie di nuovo una passeggiatrice: Mema Valbona, di ventidue anni. Le chiede da dove venga: quando si sente rispondere “Albania”, decide che può morire. Nel suo progetto, infatti, le prostitute uccise devono essere tutte di nazionalità diversa.

Con questo assassinio, la psicosi collettiva destata dall’esecuzione sul treno si attenua: pare che il serial killer sia tornato a colpire determinate categorie di persone e che quanto avvenuto il 12 aprile sia stato solo un episodio.
Questa timida speranza crolla in meno di una settimana.

Maria Angela Rubino perde la vita sul treno Genova-Ventimiglia, il 18 aprile 1998, uccisa da un colpo alla testa sparato attraverso la giacca. Bilancia questa volta si masturba accanto al cadavere, cosa che non aveva mai fatto in precedenza. Scende a Bordighera e con un taxi rientra a Sanremo, dove aveva lasciato la macchina.

La sua ultima vittima è Giuseppe Mileto: il 20 aprile 1998, dopo una cena non pagata in un ristorante, Bilancia imbocca l’autostrada in direzione Genova e si ferma per fare rifornimento. Al benzinaio dice di non avere al momento denaro ma promette che tornerà a pagare il giorno dopo.

L’uomo insiste per avere i soldi, la cosa gli manda il sangue alla testa. Lo minaccia con la pistola e si fa consegnare l’incasso della giornata. Intanto giunge una macchina e Mileto deve servirla, questi però cerca di comunicare al cliente cosa stia succedendo. Appena l’auto si allontana, Bilancia spara, si cambia d’abito, e va a saldare il conto al ristorante. Alle ventitré si reca al casino di Sanremo.


Donato Bilancia: la cattura e la confessione del serial killer

L’impressionante numero di omicidi compiuti in pochissimi giorni allarma l’intera popolazione genovese, molte persone che conoscono Bilancia iniziano a sospettare di lui dopo aver visto gli identikit tracciati sulla base delle testimonianze di Juli Castro e Luisa Cimminelli.

In particolare, a portare gli inquirenti sulle tracce del killer è l’uomo che gli ha venduto la Mercedes. Non essendo stato formalizzato il passaggio di proprietà, le multe comminate a Bilancia continuano ad arrivare al vecchio proprietario, il quale nota un’allarmante coincidenza: molte contravvenzioni sono state prese in posti in cui sono avvenuti i delitti. I Carabinieri hanno così un nome su cui indagare.

Il 6 maggio 1998 arriva l’arresto: tracce di saliva prelevate da una tazzina in un bar presentano lo stesso DNA rinvenuto sulla scena del crimine dell’omicidio Asodo.

Bilancia confessa immediatamente ogni delitto, anche quelli di cui non è sospettato e che nessuno aveva pensato di collegare. La molla che lo ha spinto a uccidere, spiega, è stato il tradimento di Maurizio Parenti. «Quando nella bisca ho colto la frase di Maurizio che diceva "hai visto che sono riuscito ad agganciare Walter", nella mia testa è successo un macello e ho subito pensato: questi qui ora li debbo uccidere... sono sempre stato un lupo solitario, non mi sono mai iscritto a niente. Ma credevo nell'amicizia. Con quella frase pronunciata da Maurizio per l'ennesima volta mi sono sentito pugnalato alla schiena... Mi dispiace solo di aver ucciso Carla. Centenaro invece è sempre stato un viscido e lo trattavo come tale. Questo è stato il motivo che ha fatto esplodere in me una cosa di incredibile violenza. Perché io ho sempre vissuto tranquillamente per quarantasette anni, poi qualcosa è successo da un momento all'altro, non è che uno si sveglia alla mattina e dice: "va be’, oggi mi cerco un'arma e vado ad ammazzare qui e là".»

Raccontando con precisione ogni delitto, illustra poi i propri piani futuri: avrebbe smesso di uccidere per un po’, voleva “lasciar riposare Genova, perché era una città un po' scossa”. Poi sarebbe stato il turno dei conduttori di bische.

Ma è stato fermato, e forse è un bene. Bilancia ha sempre sperato “che la cosa fosse finita al più presto, magari a seguito di una sparatoria con la polizia”. In lui, l’idea del suicidio era sempre presente, è stato solo per vigliaccheria che non è riuscito a puntarsi la pistola alla tempia e fare fuoco. E ora che è in prigione quest’idea continua a tormentarlo.


Donato Bilancia: i processi all'assassino seriale

Il primo processo a suo carico si apre il 13 maggio 1999. Bilancia sceglie di non essere presente in aula: ormai ha confessato e preferisce stare lontano dai riflettori. Sono così PM e avvocati difensori a dividersi la scena, assieme ai periti incaricati di stabilire l’eventuale incapacità di intendere e volere.

Le conclusioni a cui giungono gli psichiatri dell’accusa, Rossi, Ragazzo e De Fazio, sono chiare: esiste in Bilancia un disturbo del comportamento, ma esso “non ha inciso sulla capacità di intendere la realtà dei delitti che andava consumando.”

Di diverso parere i consulenti della difesa, i quali puntano il dito sulla difficile infanzia dell’imputato, sulla tragica scomparsa del fratello, cui era molto legato, e sugli incidenti che hanno minato la sua integrità fisica e mentale. Secondo Di Marco e Canepa, “la capacità di intendere era gravemente lesa, inficiata, come dimostra la sproporzione totale tra causa ed effetto fin dai primi omicidi. Però quello che importa è che la capacità di volere lo era totalmente”.

Sono allora le testimonianze dei periti nominati dalla corte, il professor Fornari, il professor Ponti e il dottor Mongoli, a decretare le sorti di Bilancia. Essi dichiarano: «Siamo giunti alla conclusione che Bilancia era al momento dei fatti, come nell'attualità, pienamente capace di intendere e di volere.»

La corte d’Assise, in una lunga e dettagliata sentenza, dichiara dunque Bilancia colpevole e lo condanna all’ergastolo, con isolamento diurno per tre anni.

Il processo d’Appello e quello dinanzi alla Corte di Cassazione si svolgono in tempi brevi ed entrambi confermano le condanne di primo grado.
Attualmente, Donato Bilancia è detenuto nel carcere di Padova.


A colloquio con Andreoli

Proprio nella prigione padovana sono avvenuti i suoi incontri con lo psichiatra e neurologo Vittorino Andreoli: a lui ha raccontato tutto se stesso, a partire dall’infanzia fino agli omicidi, senza tralasciare nulla, aprendosi completamente anche per cercare di capire cosa in lui non funzioni, perché abbia ucciso.

Andreoli, dal canto suo, ascolta senza pregiudizi: non è coinvolto nei processi e non fa altro che raccogliere le esternazioni di un uomo che in qualche modo cerca aiuto.

Dalle conversazioni libere, emergono allora numerosi elementi d’importanza psichiatrica: l’infanzia infelice, le violenze psicologiche subite, un senso d’inferiorità nei confronti di tutti, il fallimento della propria vita sociale, l’enorme malessere causato dall’avere un pene “nano”.
Da questi elementi, Andreoli deduce gli aspetti più significativi della sua personalità.

Bilancia è masochista, in quanto non ha fiducia in se stesso e l’uccidere per lui si traduce in un continuo uccidersi: è per questo motivo che parla continuamente di suicidio e dice: «Sono convinto che la soluzione di tutto sia la mia morte. Vorrei che fosse una morte senza clamore, una notizietta di due righe: "Il detenuto Bilancia si è impiccato in cella", punto e basta.»

Accanto a questo senso d’inferiorità emerge però una "grandeur", un tentativo di mostrarsi migliore, una manifestazione esterna di grandiosità che compensi il nulla interiore.

Da rimarcare, perché estremamente importante nella sua vicenda, è anche il "senso dell’onore", quella fedeltà ai propri impegni che addirittura lo spinge a grossi reati pur di non mancare alla parola data. È forse proprio per questo motivo che per Bilancia i tradimenti sono ancora più dolorosi: egli è una vittima di cui tutti si sono presi gioco, nonostante la sua grande lealtà.

E ancora è da sottolineare l’"infantilismo emotivo": Bilancia critica i genitori ma va a trovarli almeno una volta alla settimana, parla del maestro ladro come del padre che avrebbe voluto.

In sostanza, egli è sempre in bilico tra ostentazione di grandezza esteriore e percezione negativa interiore, e quando questo fragile equilibrio si rompe del tutto, B2 prende definitivamente il sopravvento su B1. La depressione per l’ennesimo smacco lo porta a scegliere tra due alternative: punire Maurizio, o punire se stesso.
Sappiamo com’è andata.

Quello che fino a poco tempo fa non si sapeva ancora è invece cosa sarebbe accaduto in futuro. Bilancia era stato condannato all’ergastolo: carcere fino alla morte. Ci si chiedeva Sarà capace di attendere la fine o prevarrà la sua domanda fissa... «Che senso ha tenermi in vita?»

Dopo una vita in carcere decisamente attiva, particolarmente ricca di esperienze una volta terminato l'isolamento nel 2011 (nel 2016 riuscì anche a diplomarsi in Ragioneria con una votazione di 83/100), Donato Bilancia è morto il 17 dicembre 2020, all'età di 69 anni: contratto il COVID-19 in carcere decise di lasciarsi morire per non essere "più un problema per la società".

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