Come scrivere un romanzo horror: Tecniche in Nero (Lezione 4)

Parte IV del corso di Giuliano Fiocco per imparare a scrivere storie horror…

"Hanno assassinato della gente, qui", disse.
"Davvero?"
"Un uomo l’estate scorso. Era un anziano, del complesso Ruskin, proprio qui vicino. Non lo conoscevo, ma era amico della sorella della mia vicina. Non ricordo il suo nome."
"Era stato assassinato?"
"Fatto a pezzi nell’ingresso di casa sua. Non l’hanno trovato per quasi una settimana."
" E i suoi vicini? non si sono accorti della sua assenza?"
Anne-Marie alzò le spalle, come se le informazioni principali - l’omicidio e l’isolamento di quell’uomo- fossero state fornite, e qualunque ulteriore indagine del problema fosse irrilevante. Però Helen insistè.
"Mi sembra strano," disse.
Anne-Marie inserì di nuovo la spina della teiera riempita d’acqua. "Bene, è sucesso" replicò con indifferenza.
"Non voglio dire che non è successo, volevo soltanto..."
"Gli avevano strappato gli occhi," disse Anne-Marie prima che Helen potesse esprimere ulteriori dubbi.

Allora, cari ragazzi e ragazze, benvenuti alla nuova puntata di Tecniche in nero. Abbiamo appena letto assieme un brano del racconto Il Proibito di Clive Barker, tratto dalla raccolta Libro di sangue 2 edito dalla Bompiani per la collana "I Grandi tascabili", scritto utilizzando la modalità della terza persona singolare "attiva", in cui il narratore partecipa attivamente alla storia, e dunque tutto la consequenzialità degli avvenimenti è vista dal lettore avendo come prospettiva quella del narratore, e questa rappresenta sia il pregio che il limite di questa modalità narrativa. Il pregio perché permette di mantenere la suspense a livelli elevati, lasciando all’oscuro di alcuni elementi il lettore, mentre ne rappresenta il limite proprio perché al di fuori della visuale del protagonista nulla si può sapere. L’utilizzo della terza persona "attiva" garantisce inoltre un certo distacco tra la voce narrante e l’autore, che può evitare di "commentare" facendo sentire la propria voce fatti e persone, lasciandone il compito alle valutazioni soggettive del narratore.

Ma perché utilizzare la terza persona singolare quando si potrebbe utilizzare la prima? La ragione è semplice: la prima persona singolare implica fin dall’inizio che il protagonista arriverà vivo alla fine della storia, e nel nostro genere non è propriamente il tipo di vantaggio "conoscitivo" che vogliamo lasciare al lettore, non trovate? Del resto, il racconto preso ad esempio, che parla dell’incontro funesto tra Helen, una giovane ricercatrice universitaria a caccia di materiale per la propria tesi "Graffiti, la semiotica della disperazione urbana", e Candyman, "l’uomo dei dolci", l’incarnazione del "mostro" delle leggende urbane, si concluderà con un rogo, e l’odore della carne bruciata che si spanderà nell’aire non sarà davvero quello di Candyman...

Esiste poi la terza persona singolare "onnisciente", che mette in gioco un narratore che conosce tutto e che sa tutto. Questa modalità narrativa è l’unica che permette di entrare nella mente dei protagonisti, e di conoscere tutto di loro. E’ una modalità narrativa che si trova spesso nei racconti dei neofiti, o in gran parte della narrativa ottocentesca (pensiamo solo ai Promessi Sposi del Manzoni...). Non c’è discriminazione tra i buoni o i cattivi: il narratore conosce quello che passa per la testa di ognuno (un esempio tra i più riusciti è contenuto nel romanzo di McCammon "Tenebre", in cui il narratore conosce i pensieri e le azioni di tutti i protagonista, da Swan, l’angelo reincarnato purificatore della terra a Friend, "L’Amico", l’incarnazione del Male che lotta per il trionfo del caos), e viene di solito utilizzato, nella narrativa moderna, quando la complessità della trama richiede più "punti di vista" per avere uno sviluppo coerente. Ovviamente, il passaggio da un punto di vista all’altro, è appena il caso di dirlo, non può essere fatto a metà di un paragrafo o di un capitolo: questo ingenererebbe solo confusione nel lettore, costretto a spostarsi, per così dire, da una mente all’altra. Cambiate punto di vista. se proprio volete o dovete, solo con un operazione di "distacco" dell’attenzione, come può essere il passaggio da un paragrafo o da un capitolo all’altro, in modo da mettere "sull’avviso" il lettore, che può predisporsi ad una nuova visione degli avvenimenti.

Riepilogando brevemente:

la forma in terza persona può sinteticamente dividersi in:

  1. Il narratore conosce tutto di ogni protagonista, compresi i pensieri.

  2. Il narratore conosce tutto solo di un protagonista (o di un personaggio): può entrare nella sua testa e conoscerne i pensieri, ma gli è esclusa questa possibilità per tutti gli altri "comprimari" del racconto.

  3. Il narratore conosce tutto di tutti, ma non può entrare nella testa di nessuno. Questo tipo di narrativa, che preclude la possibilità di usare frasi del tipo "E il tizio pensò...", oppure "Tizio sentiva nascere nel proprio animo il desiderio di...", è utilizzato nella narrativa ipersoggettiva, tipica dei racconti minimalisti americani, a partire da Carver ed Hemingway, ma è di difficile utilizzo nella narrativa horror, che è in gran parte narrativa di "stati d’animo". La paura è difficile da visualizzare con le parole, avendo preclusa la strada dei pensieri. Questo non significa che non sia possibile provarci: anzi, in narrativa (e nel resto della vita) sono proprio le sfide più difficili ad essere le più stimolanti.

  4. Il narratore conosce tutto, mente compresa, di un gruppo di personaggi (solitamente definiti da un aggettivo qualificativo: possono essere i "buoni" o i "cattivi", i "simpatici" o gli "antipatici", i coraggiosi" o i "fifoni").

    Bene.

Anche questa è fatta.
All’inizio della puntata precedente, avevo anticipato che vi avrei tediato con alcuni elementi di retorica. Penso che i pochi accenni dati fin qui possano bastare, per il momento. Ulteriori divagazioni su questo tema le ritengo non in linea con le premesse fondamentali con cui avevamo iniziato questa serie di "chiacchiere letterarie" tra amici. Se a qualcuno interessa la retorica, in libreria non mancano i buoni testi che la sviscerano a fondo, prendendo in esame anche gli sviluppi della moderna narratologia. Volete farvi del male e nello stesso tempo avventurarvi in un viaggio quanto mai interessante? Allora leggetevi il testo Retorica della narrativa, di Wayne C. Booth, per la collana "La Nuova Italia", cinquecento pagine fitte fitte alla modica cifra di £. 48.000. Del resto, la retorica è fondamentale, per chi scrive narrativa, ed elementi di retorica vengono usati, spesso inconsciamente, da ognuno. Come dice Barthes nel suo trattato "La retorica antica", la retorica applicabile alla narrativa moderna è quella aristotelica, in quanto regno del "verisimile" aristotelico, ossia tutto ciò che il pubblico crede possibile.
"Val meglio un verisimile impossibile che un possibile inverisimile", ecco la regola: meglio narrare ciò che il lettore ritiene possibile, anche se scientificamente impossibile, piuttosto che narrare qualcosa di "reale" ma che l’opinione corrente ritiene impossibile". E tenete sempre presente che quando parliamo di "ciò che il lettore ritiene possibile" intendiamo in realtà "quello che il lettore, nella sua sospensione dell’incredulità è disposto a concedere al narratore".
Un ultimo elemento: nella scrittura horror, come nel noir e nel giallo, spesso c’è l’utilizzo, soprattutto nei racconti, dell’inferenza.
In logica, è il procedimento deduttivo mediante cui da una o più premesse si ricava una conclusione.
Nella letteratura di genere, e soprattutto nella narrativa "a tinte forti" questo procedimento viene adottato per generare nel lettore delle "false" certezze, che solitamente il colpo di scena finale provvede a capovolgere o a disattendere, senza che per questo il lettore possa sentirsi ingannato. Infatti, l’autore non hai mai detto qualcosa di diverso da ciò che le sue parole vogliono dire, ma è stato il lettore, con un autonomo processo di "sovrapposizione" delle sue idee al testo scritto, a "significarle" secondo un modulo interpretativo soggettivo.
Questo avviene ad esempio quando usiamo, come protagonisti o comprimari dei nostri racconti, delle figure "stereotipate", che proprio grazie a questa loro virtù letteraria richiudono in loro una capacità di "immaginazione preventiva" da parte del lettore molto forte: quando ci troviamo ad aver a che fare con quello che noi rileviamo essere uno stereotipo, siamo propensi ad assegnarli tutta una serie di caratteristiche ben precise, sia fisiche che, per così dire "morali". L’autore avveduto utilizza questa particolarità per costruire un personaggio che, nel climax del racconto, si comporta in maniera tale da farci rivedere tutte le opinioni preconcette che ci eravamo fatti su di lui (classico esempio: il vile che si trasforma nel giustiziere, il violento che si rivela codardo posto di fronte alla necessità di agire, e così via). Ovviamente, occorre tenere saldamente le redini della narrazione, per rendere plausibile "il capovolgimento narrativo".

La suspense

Mooolto brevemente, vediamo quali sono le modalità narrative che portano a "creare" suspense.
Nella scrittura di narrativa a tinte forti, le possibilità di creare suspense sono due: o fornire al lettore un numero di informazioni maggiore di quelle in possesso del/dei protagonisti del testo, oppure fornirne in maniera minore rispetto a quelle date per acquisite dai protagonisti. Il procedimento mediante il quale si sottraggono al lettore informazioni è quello abitualmente applicato nella giallistica, come ad esempio nei libri di Agata Christie: le informazioni celate non devono essere in ogni caso quelle essenziali (vi sentireste presi in giro se al dipanarsi di una trama gialla, nel momento del disvelamento del colpevole risultasse la presenza di un indizio fondamentale che nessuno aveva menzionato in precedenza). Questo sistema viene usato, ad esempio, quando il protagonista ha un segreto, che lo porta ad interagire con l’ambiente e con la storia conseguentemente: il lettore non conosce qual è, e pertanto cerca di capirlo dal comportamento del protagonista. Un esempio pratico può validamente essere rappresentato dal romanzo Ghost story, edizioni Sonzogno, di Petere Straub, in cui il leitmotiv della storia, perlomeno all’inizio, è rappresentato dalla colpa di cui sono macchiati i membri della Chowder Society nella loro giovinezza. Eccone un brano:

"Be’, suppongo ricordiate tutti come siamo giunti a questo punto", disse Jaffrey.
Sears annuì e anche Ricky Hawthorne. Tutto era cominciato al loro primo incontro, dopo la strana morte di Edward Wanderley. I quattro sopravvissuti avevano esitato a riunirsi - l’assenza di Edward era stata così evidente, quasi avessero avuto davanti la sua sedia vuota. Avevano cominciato a conversare in maniera esitante, e si erano insabbiati dopo una dozzina di falsi avvii. Ricky si era chiesto se sarebbero riusciti ad andare avanti con quelle riunioni. Un’idea insopportabile. E a quel punto aveva avuto un’ispirazione: si era rivolto a John Jaffrey dicendo: "Qual è stata la cosa peggiore che hai fatto?".
Il dottor Jaffrey era sorprendentemente arrossito, e poi aveva fissato il tono per ogni loro successivo incontro dicendo: "Non voglio confessartelo, ma ti racconterò la peggiore cosa che mi sia capitata... la più spaventosa..." ed aveva proseguito con quella che si era rivelata una storia di spettri. Sorprendente, paurosa... tale da distrarli dal pensiero di Edward. E così era avvenuto ad ogni loro successivo incontro [...]
[...] "Proprio come i nostri" interpose coraggiosamente Jaffrey. "Edward avrà avuto un motivo se ha lasciato al nipote la casa. Secondo me voleva far venire qui Donald nel caso gli fosse accaduto qualcosa. E dunque ritengo che sapesse che qualcosa stava per accadergli. Vi dirò cos’altro penso. Penso che dovremmo dirgli tutto di Eva Galli."
"Una storia vecchia di cinquant’anni, che non ha neppure una conclusione? Ma è ridicolo"
"La ragione per cui non è un’idea ridicola sta proprio nel fatto che la storia non ha una conclusione", sostenne il medico.

Come potete vedere, si genera un senso d’attesa e di rivelazione fortissimo. Di che strana morte è defunto il povero Edward? Qual è la storia di Eva Galli? Perché nessuno ce lo dice? Il libro merita di essere letto, e pertanto non ve lo dico neppure io.

Altra tecnica impiegata é quella di fornire al lettore una messe di informazioni superiore a quella in possesso dei protagonisti della storia. E’ chiaro che in questo caso si riescono ad ottenere effetti di suspense che se ben dosati sono veramente funzionali al testo: il lettore sa che dietro alla porta o sotto il letto c’è il babau (perché VOI glielo avete detto in precedenza, mostrandogli come se ne sia strisciato fuori dell’armadio a muro, lasciando dietro di se una bava verdastra che subito si è seccata all’aria, e si sia trascinato sotto la rete metallica che porta il materasso...), e trattiene il fiato quando il/la protagonista s’inchina e solleva il copriletto per cercare il gatto perso. Qual è il rischio che si corre, in questo caso? Semplice, quello di farsi prendere la mano e di rivelare troppo, togliendo il gusto al lettore di "scoprire" con il protagonista se il mostro c’è o meno.
Esempi ce ne sono a bizzeffe: a voi l’arduo compito di trovarli!

Caratterizzare l’ambiente

Ogni storia necessita, prima ancora della definizione di un personaggio, della creazione di un ambiente in cui l’azione si svolge. Questo ovviamente non è necessario se il nostro racconto si svolge nella forma di monologo interiore, o di flusso di coscienza, ma diviene elemento indispensabile quando si vuole saldamente ancorare la storia a qualcosa che avviene "al difuori" dell’animo umano. Il rischio maggiore che si corre, nella caratterizzazione dell’ambiente, è quello che ormai ben conosciamo: descrivere invece che narrare. Una serie di frasi dichiarative finemente elaborate, assieme alla sospensione dell’intreccio narrativo porta invariabilmente ad una conseguenza: il sonno.
Prendiamo ora ad esempio due brani.

"Non c’è occhio umano che possa sceverare l’infelice coincidenza di linee e di luogo che suggerisce il male di fronte ad una casa, eppure in qualche modo un contatto particolare, un angolo male inserito, qualche casuale incontro del tetto col cielo trasformava Hill House in un luogo di disperazione più spaventoso perché la facciata pareva desta, le finestre vuote parevano occhi che spiassero con un certo cipiglio che veniva dal cornicione simile ad una fronte aggrottata. [...] Ma una casa arrogante, che odia, che sta sempre sul chi vive può essere soltanto malvagia."

E’ un brano tratto dal romanzo La casa degli invasati di Shirley Jackson, Urania n. 1333. Un libro capolavoro, che segna la rinascita del gotico americano. Allora, in questa breve descrizione, che segue quella fulminante dell’inizio del libro e che potrete trovare sviscerata a fondo nel testo Dance Macabre del buon King, edizioni Theoria (e non vorrete proprio fare a meno di leggere vero, se volete diventare buoni scrittori?), troviamo una descrizione d’ambiente perfetta nella sua essenziale efficacia. Da esattamente l’idea di ciò che vuole narrare. La nostra mente fatica a rintracciare gli elementi "fisici" che fanno di Hill House una casa "malata", se non ricorrendo a certe immagini impossibili di Escher, ma nonostante tutto la sensazione che abbiamo, forte, è che in tutto questo ci sia qualcosa di profondamente sbagliato, di insano. E sì che la descrizione di una casa "stregata", con l’interpretazione quasi fisiognomica della facciata la ritroviamo già nel racconto di Poe La caduta della casa Usher. Ma in questo brano la casa non appare come una banale costruzione infestata, o come la rappresentazione metaforica di un disfacimento morale e fisico dei suoi proprietari, ma bensì come un vero e proprio organismo vivente, dotato, per sua intima natura, di una "personalità" malvagia. La casa diventa quindi "arrogante", e capace di sentimenti come l’odio, sempre attenta e sveglia, immersa in una realtà innaturale. Qui la caratterizzazione dell’ambiente è spinta all’estremo: è l’ambiente stesso che diventa protagonista, e da senso alla storia.
Vediamo la descrizione di un’altra casa stregata, la dimora Greymare del racconto La demolizione della casa di Greymare di Michael Reaves, contenuta nella raccolta Le case del brivido, per i Grandi tascabili economici Newton, a £.6.900:

"Appoggiandosi all’indietro, ammirò la casa. Era un miscuglio di stili: pilastri classici si combinavano ad abbaini gotici, finestre ogivali a mura Tudor, ricoperte per metà di legno. L’effetto era, comunque, unitario e imponente. Sebbene fosse rimasta vuota per cinque anni e le tempeste e le stagioni l’avessero tristemente rovinata, rimaneva maestosa. Era a tre piani, ampia ed estesa. Recuperare quello che era ancora in buono stato avrebbe voluto dire demolire a mano, e avrebbero impegnato un mese per farlo, o forse di più. Lamar sospirò. Era un crimine, più che un crimine, quasi un peccato, quasi come distruggere una vita...."

Vi assicuro che questo è un buon racconto di case stregate, con tutti gli annessi e connessi che ci si aspetta da un testo del genere, però... però vedete che cade nella descrizioni, e che non riesce a raggiungere neppure un centesimo dell’effetto che produce il brano della Jackson? Anche qui, la casa è vista, dal narratore, badate bene, come una "vita da distruggere", eppure continua a rimanere, per noi lettori, così come la vediamo descritta: un insieme di mura e particolari architettonici, senza quella traccia di "male" che in maniera così efficace viene descritta nel brano precedente.
Entrambi gli autori utilizzano uno stratagemma della retorica chiamato "fallacia patetica": secondo la definizione data da John Ruskin, ossia proiettano dei sentimenti propri dell’uomo nei fenomeni e nelle rappresentazioni tipiche della natura. Per Ruskin questo stratagemma era da condannare, in quanto forniva l’appiglio agli scrittori mediocri di scrivere in modo narcisistico e "mieloso", ma se usato con parsimonia consente di produrre effetti di grande intensità emotiva, cosa indispensabile per la nostra narrativa di "emozioni".

Bene, anche per questa puntata è giunto il momento di chiudere: ne approfitto per ringraziare Annalisa, Sonia, e Carla per l’apprezzamento del lavoro svolto fin qui, e vi do appuntamento al prossimo numero di IT. Ah, un’ultima cosa: se avete osservazioni, critiche, commenti da fare, o vostre prove narrative da "analizzare", non fate complimenti: siamo qui per questo, e non vi mangiamo... per il momento!

Ciao a tutti.

Tecniche in Nero
Copyright © 2003 by Giuliano Fiocco

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sulle pagine del sito Horror.it, ed è stato riprodotto qui col consenso dell'autore.

Articolo scritto da:
Giuliano Fiocco

Come scrivere un romanzo horror: Tecniche in Nero (Lezione 4)
Articolo pubblicato il 01/11/2003


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