Consigli di scrittura creativa: la seconda parte della lezione sullo Schema a Tre Atti.
Quattro. Il “three-act plot”.
Descrivere la teoria che sta dietro alla trama a tre atti richiederebbe un libro intero. In ogni modo le righe che seguiranno cercheranno di spiegare sinteticamente ed in maniera chiara i punti più importanti che devono essere tenuti presenti nel momento in cui si scrive una storia. Anche perché, alla fine dei conti, è la storia stessa che deve funzionare e non la struttura che può o non può esserci alle sue spalle.
Nei film statunitensi in ogni caso è abbastanza frequente trovare questo schema. Pressoché tutti i film più popolari usano questa tecnica, là dove i romanzieri difficilmente la seguono così severamente come gli scrittori dello schermo fanno.
I Tre Atto sono:
- Atto 1: INIZIO
- Primo Punto di Attacco
- Atto 2: SVILUPPO
- Secondo Punto di Attacco
- Atto 3: CONCLUSIONE
INIZIO: In questa fase deve essere presentata la situazione complessiva così come appare. In particolare chi sono i personaggi e cosa fanno normalmente nella loro vita di tutti i giorni (mondo ordinario), così come il mondo in cui vivono e le eventuali necessità più o meno manifeste dei personaggi stessi.
Generalmente in questa parte l’eroe (il personaggio principale) ha un problema o un obiettivo che vorrebbe raggiungere. Potrebbe essere un desiderio segreto, un problema con sua moglie, oppure qualcosa che non va con il suo lavoro. Una meta alla quale vorrebbe tendere. O solo qualche cosa che potrebbe dare un significato alla sua vita, o migliorare le sue condizioni generali.
Questa situazione è quella che comunemente viene denominata “conflitto”.
In realtà esistono spesso due linee di narrazione in cui dietro il conflitto evidente, quello che viene mostrato, si nasconde un conflitto più profondo e nascosto che deve essere risolto in concomitanza con quello palese. In “Home Alone” di Chriss Columbus, per esempio, il problema evidente è per Kevin quello di vivere senza i suoi genitori e sconfiggere i ladri che vogliono entrare in casa. Quello sommerso è il fatto che egli è da sempre considerato il “buono a nulla” della casa. Alla fine del film entrambi i conflitti verranno risolti.
In una sceneggiatura questa parte generalmente dura 20-25 minuti (20% della lunghezza totale). In un romanzo potrebbe durare da poche pagine sino a cento e più, oppure essere del tutto assente. Dipende in ogni caso dalle necessità del singolo caso e dalla storia stessa. E in definitiva (come tutto del resto) da quello che l’autore vuole raccontare e in che modo lo vuole esprimere.
Qualche altro esempio per chiarire meglio il concetto sull’essenza del primo atto: in “Jurassic Park” di Steven Spielberg, Alan Grant è un paleontologo. Egli sta lavorando su un sito di scavi, così come normalmente fa ogni giorno (il suo mondo ordinario). Egli vorrebbe sapere come i dinosauri realmente vivevano e si comportavano quando esistevano ancora sul pianeta Terra. Contemporaneamente egli possiede un forte problema di soldi per poter seguire le sue ricerche, in quanto i finanziatori in questa fase della storia scarseggiano. Dall’altro lato Ian Malcom è solo un esperto di matematica e di sistemi complessi. Esiste inoltre un conflitto sommerso: Grant non sopporta i bambini, così come probabilmente l’idea stessa della famiglia.
In “Rocky”, il protagonista vive nella strada, tenta di trovare un modo per penetrare il cuore di Adriana e lotta per pochi dollari nei club privati. Ha una casa povera e trascorre la maggior parte della sua vita nella strada. Sostanzialmente si può dire che egli non ha futuro.
In “Explorers” di Joe Dante, Ben è un ragazzo che ha una passione per lo spazio e che vive la sua normale vita in un piccolo paesino degli Stati Uniti. In “Suore in Fuga” di Jonathan Lynn, i due protagonisti sono due gangster che sono stanchi della propria vita malavitosa, routinaria e inconcludente.
PRIMO PUNTO DI ATTACCO: improvvisamente nella storia qualche cosa accade. Un evento che cambia improvvisamente il mondo ordinario del personaggio, e stravolge completamente le sue aspettative e le sua situazione attuale. Il protagonista è spinto in una situazione nuova che rinnova radicalmente la sua vita di ogni giorno e quello potrebbe dare una risposta alle sue domande nascoste, proiettandolo senza pietà nel suo mondo “straordinario” (cioè quello nel quale normalmente non si troverebbe ad agire). Generalmente richiede il 2-3% della storia.
In “Rocky”, il personaggio principale è scelto per una sfida per il titolo mondiale. in “Jurassic Park” inizialmente Alan Grant è chiamato su un’isola del Sudamerica, successivamente egli scopre che dinosauri vivono di nuovo. Il punto di attacco reale tuttavia, è il collasso dei computer che porta a uno stato di squilibrio: adesso è chiaro che i personaggi devono lottare per rimanere vivi, cosa che sino a qualche minuto prima era del tutto scontata. C’è stata una svolta drammatica a improvvisa al filo logico della storia, che rimarrà su questa piega sino a quando il conflitto non si avvierà alla conclusione.
Nel film di Denny de Vito “La guerra dei Roses”, Michael Douglas ha un attacco di cuore (che poi risulta essere in realtà una indigestione).
In “Jack” di Francis Ford Coppola, Jack un bambino di dieci anni con l’aspetto da uomo, entra per la prima volta nella classe della scuola elementare. In “Misery”, Paul Sheldon scopre che Annie, la donna che lo salvò dal suo incidente di macchina è in realtà una folle (fino a quello punto egli era sicuro che lei fosse soltanto la sua “più grande ammiratrice”).
In “Thelma & Louise” di Ridley Scott, Louise uccide l’uomo nel parcheggio del country club (a questo proposito è curioso sottolineare come alcuni autori descrivono questo film – premio oscar per la sceneggiatura nel 1992 – come un esempio classico di schema a tre atti, là dove altri ne parlano come la sua chiara eccezione).
SVILUPPO: in questa fase la storia ha un’evoluzione. Molti eventi stanno accadono, ma ognuno di essi aiuta la storia a andare in avanti, a indirizzarla verso la fine. Ogni passo spinge la storia verso la soluzione del conflitto, per quanto questo possa non sempre essere evidente. Il personaggio cresce, diviene consapevole delle sue abilità e della natura del suo animo, e contemporaneamente di tutti i problemi che lo allontanano dalla meta.
Non necessariamente però si comprende come un evento che si verifichi possa essere significativo per la storia (alcune cose le si comprendono solo alla fine, in qualche modo) e spesso sembra che ogni nuovo evento possa trasportare la storia lontano dal lieto fine.
In altre parole il personaggio si trova a dover affrontare numerosi “ostacoli” che si pongono tra il conflitto e la meta, ognuno dei quali spinge verso la direzione opposta alla soluzione dello stesso, a volte sino a creare situazioni di chiaro imbarazzo che possono sembrare del tutto negative nel svolgimento della trama.
Nella parte media della storia il protagonista deve trovare il modo e la forza (spesso interiore) per superare questi ostacoli, e scoprire quindi il modo per arrivare allo scopo.
In ogni modo è importante studiare tutta le situazioni che potrebbero aiutare l’eroe a vincere la propria battaglia. In una storia che parla di un processo, per esempio tutte le prove che vengono scoperte dall’avvocato per il suo cliente, tutti i testimoni che lui riesce a trovare, e come lui riesce a trovarli sono l’essenza di questo atto. Così come le prove che l’altra parte potrebbe produrre, e che ogni volta possono portare la soluzione della storia lontano dalle aspettative del pubblico.
In “Rocky” o in “Karate Kid” (entrambi diretti da John G. Avildsen) questo atto si identifica con l'addestramento, e con la storia d’amore che fa da sfondo a questo. Nel “Signore degli Anelli”, tutte le avventure attraverso le quale i personaggi vanno incontro.
In “Suore in fuga” il secondo atto inizia nel momento in cui i due protagonisti si travestono da suore e si conclude nel momento in cui essi vengono smascherati.
Nel “Negoziatore” di F. Gary Gary, in cui è palese la forte presenza dello schema a tre atti, tutta la fase della trattativa con i prigionieri costituisce il secondo atto.
In “Billy Eliott” e “Full Monty”, entrambe produzioni inglesi, durante lo svolgimento si ha una brusca inversione di rotta nel momento in cui nel primo il padre di Billy scopre la sua passione per la danza, mentre nel secondo è l’intervento della polizia che rischia di compromettere non solo il progetto dei personaggi, quanto anche il rapporto familiare (già precario per altro) del protagonista, e la possibilità di continuare a stare con suo figlio e la sua futura possibilità lavorativa (il conflitto di partenza era sia a livello familiare che economico, essendo quasi tutti i personaggi disoccupati e senza futuro).
SECONDO PUNTO DI ATTACCO: simile a primo, questa fase del racconto, spezza lo sviluppo della storia e la proietta violentemente verso la sua soluzione. Quando tutto sembra essere perduto, cioè, qualche cosa di improvviso e repentino arriva per risolvere il problema. Il personaggio ora può vedere chiaramente dove sta andando e quali azioni sono indispensabili per arrivare in un modo o nell’altro meta.
In “Jurassick Park”, Alan Grant raggiunge la base, dove i ragazzi (il bambino nel romanzo) possono riavviare il computer e arginare il problema principale. In una storia con una processo, l’avvocato trova la prova o il testimone certi o definitivi che gli danno la possibilità di vincere la causa (anche se naturalmente sarà il verdetto della giuria a stabilire se la causa è vinta realmente o meno). È il caso per esempio di “Mio cugino Vincenzo”, o di “Presunto innocente”.
In “Salvate il Soldato Ryan”, i soldati comandati da Tom Hanks trovano un ragazzo che è un buono amico di Ryan e che dice loro dove trovare la persona che stanno cercando.
Nel film “Seven” di David Fincher il serial killer decide di costituirsi alla centrale di polizia dove Bred Pitt e Morgan Freeman lavorano. In “Miss Doubtfire”, Robin Williams perde la maschera davanti a tutta la famiglia.
Come il primo punto d’attacco anche il secondo dura circa il 2-3% del totale.
FINALE: Dal secondo punto d’attacco in poi ora tutto appaia in modo chiaro, e la storia va alla sua conclusione naturale. Il rimanente 20-30% della storia deve essere usato per descrivere come la storia si conclude. Questo anche se non necessariamente il finale debba essere scontato.
Qualche volta la fine e il secondo punto d’attacco sono sovrapposti (in “Karate Kid”, Daniel usa il calcio speciale e vince il torneo, quindi il film si conclude immediatamente. Un finale simile si ha in Over the Top).
Generalmente tuttavia questo non accade. In “Terminator 2”, “Highlander”, “Star Wars” e numerosi film d’azione la fine è anticipata da una lunga sfida finale tra eroe e antagonista, il cui finale non è scontato (potrebbero vincere sia l’uno che l’altro), per quanto sia ovvio, perché c’è già stato il secondo punto d’attacco, che quella sequenza chiuderà inevitabilmente il film.
In “Terminetor 2” ad esempio tale sfida si snoda nella acciaieria. Prima che si arrivi alla conclusione è necessario un tempo lungo, ma nel momento stesso in cui i personaggi entrano nella fabbrica si sa già la lotta finale è cominciata. In “It” di Stephen King i bambini vanno sotto la città. In “Indiana Jones e l’ultima crociata” il terzo atto coincide con tutta la sequenza del tempio. Si sa già che alla fine delle caverna e delle tre prove ci sarà o il Graal o la fine della storia.
Così come in “Cenerentola” è ovvio che nel momento in cui il principe entra con la scarpina nella casa della ragazza ci sarà a breve un finale. Il lettore lo sa e lo attende (nella fattispecie il bambino – che è il naturale destinatario della fiaba – anticipa già il finale e per questa ragione si sente appagato quando la storia si conclude come egli spera).
In altre parole, nel momento in cui si entra nella fase finale si sa già che in un modo o nell’altro la storia si sta avviando alla conclusione.
Questo chiaramente perché il secondo punto d’attacco ha dato una direzione univoca alla storia, un punto di non-ritorno che porta inevitabilmente alla conclusione.
Chiaramente dipende dall’autore, poi se lo obbiettivo dei personaggi verrà poi raggiunto o meno, e se i suoi sogni possano realizzarsi. In ogni modo, il conflitto alla fine della storia è risolto, e il protagonista si trova in una situazione differente da quella di partenza. A questo punto egli può ritornare all’interno del suo mondo ordinario o meno (come accade in “Non ci resta che piangere” di Troisi-Benigni), ma non necessariamente questo mondo ordinario è uguale al precedente (in “True Lies” di James Cameron anche Jemie Lee Curtis diventa un’agente segreto in un mondo ordinario ristrutturato, dettato dalle situazioni che si sono create all’interno della storia).
Cinque. Subplot, foreshadowing e i tre-atti nelle signole scene.
La maggior parte delle storie ha uno o più subplots. Queste sono storie “sotterranee” che vanno avanti accanto a quella principale, spesso in uno spazio o in un tempo diverso. Possono coinvolgere lo stesso personaggio principale o gli altri personaggi presenti nella storia, così come possono influenzare la trama principale o meno.
L’importanza di subplot, in ogni modo è di creare quello che può essere definita come una “tridimensionalità” della storia. Nel frattempo la storia va avanti, infatti, dall’altro lato del mondo, della strada o nella stanza accanto all’azione qualche cosa sta accadendo. Se ci si dimentica di ciò la narrazione può diventare povera e falsa.
In “Titanic”, paradossalmente la stessa storia del Titanic è subplot della storia d’amore tra Jack e Rose, là dove in molti film d’azione è proprio la storia d’amore il plot sottostante.
Nel “Signore degli Anelli”, dal momento che Tolkien ha creato un intero mondo fantastico, i suplot, per quanto perfettamente incastrati tra loro, sono numerosissimi. Alcuni di questi aiutano la storia ad andare avanti, o semplicemente capire l’ambiente in cui essa si svolge. Altri (Tom Bombadil, per esempio o tutte le storie che si trovano nelle canzoni scritte nel libro) sono solo storie che si svolgono o che si sono svolte in contemporanea, che danno una forte profondità al mondo fantastico rendendolo molto più credibile e reale, ma che possono tranquillamente essere eliminate senza per questo intaccare la storia (nel film di Peter Jackson, per esempio, Tom Bombadil non viene nemmeno citato).
I Foreshadowing sono “semi” che l’auore mette durante la storia e che aiuteranno alla fine della stessa a risolvere il conflitto. Essi semplicemente crescono mentre la storia nel mentre ha luogo, per ricomparire poi alla fine per fornire una risposta, o la chiave di volta su cui tutta la storia si è retta.
“Rivelazioni” di Michael Crichton o il suo stesso “Sollevante”, per esempio, sono pieni di foreshadowing, che danno il senso di qualcosa lasciato in sospeso e che si rivelano essere vitali e indispensabili per la soluzione del problema (come la segreteria telefonica del primo di questi romanzi).
Allo stesso modo i polizieschi e i gialli (Sherlok Holmes o i lavori di Agata Christie, per esempio), fanno ampio ricorso a questa tecnica per creare suspance e attesa.
Lo schema a tre atti, non serve solo a alla strutturazione generale della storia ma spesso viene utilizzato in ogni singolo atto della storia stessa. In altre parole, nel primo Atto (inzio) si possono identificare un suo inizio, sviluppo, e una sua fine (che combacia con il primo punto d’attacco).
Allo stesso modo anche una singola scena all’interno di una sceneggiatura ha il suo inizio, il suo sviluppo e la sua conclusione, oltre la quale si può passare alla scena successiva. Tutto questo funziona, e dà un senso alla storia, sebbene il rischio, ovviamente è quello di creare un prodotto eccessivamente schematizzato e stereotipato, oltre che prevedibile.
Sei. Una nota.
È appunto per questa ragione che questa struttura deve essere usata con le opportune cautele del caso. Essa funziona e molti autori la usano come kit di costruzione di storie prefabbricate. Il problema è che storie anche con story concept molto diversi possono apparire molto simili tra loro se l’uso dello schema finisce con il diventare estremamente rigido.
La cosa fondamentale è ricordare che è chi scrive la storia alla fine che detta le regole del gioco, e che il mondo che si crea è il proprio, nel quale si può giocare a essere Dio, perché tutto può andare secondo le nostre decisioni.
In realtà, questo non è del tutto vero, in quanto se i personaggi sono stati creati correttamente ed effettivamente possiedono un proprio carattere e un proprio modo di agire che sia credibile e completo, essi finiscono con il possedere una propria volontà, e nel corso della storia possono prendere decisioni e compiere azioni che non erano state previste nel momento in cui la storia era stata pensata. Questo perché, inevitabilmente, un personaggio che è timido e riservato difficilmente potrà prendere una situazione di petto e risolvere un problema con tali mezzi. Questo infatti sarebbe negato dalle verosimiglianza che si intende dare alla storia. Ragione per la quale l’onnipotenza dell’autore finisce in questo modo con l’essere limitata.
Così paradossalmente eludendo ogni teoria e ogni schema basterebbe inserire i personaggi in una stanza e vedere come essi sono in grado di interagire tra loro in base a quella che è la loro personalità (e il consiglio, a questo punto, è quello di osservare costantemente e senza sosta la realtà che ci circonda e in che modo le persone interagiscono tra di loro). Oppure si può pianificare la storia in ogni dettaglio, usando la struttura in tre atti o qualunque altra struttura possa dare un significato alla storia.
Come dire, tutto dipende da te. Tutto sta nel ricordare che la parola finale è solo la tua.
Scrivere Storie che funzionano: lo schema a 'tre-atti' Copyright © 2004 by Fabio Capello
Articolo scritto da: Fabio Capello
Scrivere Storie che funzionano: lo schema a "tre-atti" (Parte 2)
Articolo pubblicato il 01/11/2004
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