Scrittura creativa: sulla persona e sul tempo: il VERBO (Parte I)

Consigli di scrittura creativa: la prima parte della lezione sulla Persona e sul Tempo

Esiste un momento, nella storia di un libro, in cui il narratore si trova a prendere una decisione importante, che non potrà più variare e che deve necessariamente segnare il procedere dell’opera. Dall’inizio sino alla sospirata parola “fine”.
Per essere precisi è l’apertura stessa del libro che condiziona una variabile essenziale, e ogni scelta qui fatta deve essere razionale, certa, e precisa.
In verità la scelta del verbo è spesso implicita nell’idea stessa del romanzo. La chiave di lettura passa attraverso questa decisione e spesso l’autore ne è consapevole sin dal primo istante. In genere è la frase di apertura che condiziona il racconto, ma anche qui esistono le debite eccezioni che come tale non possono essere ignorate.


Sulla persona

Sulla persona, dunque. È la prima scelta, la più sofferta, perché ogni decisione sul tipo di narrazione passa attraverso questo problema, e condizionerà in maniera inequivocabile tutto lo svolgersi del romanzo. Così come la struttura narrativa, che in alcuni casi diviene assolutamente forzata.
Esistono sostanzialmente tre modi di scrivere un libro, a questo riguardo. Ognuno è valido ma si deve sapere a quali pericoli si corre incontro nell’usare l’uno piuttosto che l’altro e quali sono i limiti di ciascuna tecnica, prima di cominciare.
In genere la scelta è sentita, precede la narrazione ed è l’unica che appare appropriata per quello che stiamo scrivendo. Spesso è legata al personaggio a cui si da vita. A volte è un artifizio e come tale deve essere considerato.
Tre possibilità, quindi, la prima, la seconda e la terza persona. Ognuna con un suo specifico carattere. Esaminiamo nel dettaglio ciascuna di queste opzioni.

La prima persona – è stata una della prime ad essere introdotte nella formula del romanzo (Robinson Crusoe*01, Gulliver’s Travels, etc.) e per anni ha avuto un forte impatto sul lettore. Gestisce il racconto attraverso un unico personaggio, generalmente il protagonista*02 e spesso il narratore assiste in prima persona alle vicende di cui si narra.
Il libro si svolge in un’unica chiave di lettura. L’unico punto di vista che ci è concesso è quello del personaggio e di questo bisogna tenerne conto in ogni circostanza. Il narratore conosce solo quello che accade quando lui è presente. Tutto il resto viene riferito di seconda mano. E in maniera fondamentale le emozioni e le interiorità sono solo quelle del narratore. Non può entrare dentro l’animo degli altri, non può essere certo di cosa stanno provando o di cosa stiano pensando.
Può al massimo ipotizzare, ma ogni valutazione, essendo soggettiva può anche essere sbagliata*03.
L’intero romanzo quindi si svolge in soggettiva, si suppone che chi narra sia sempre presente al momento dell’azione, e non possono esistere situazioni che si svolgono senza che egli ne venga a conoscenza. Diversamente non le potrebbe neanche riportare.
Quando si usa quindi la prima persona? Come al solito la scelta è dell’autore, ma ci sono delle linee guida che vanno sottolineate.
Innanzitutto la prima persona esprime il desiderio del protagonista di comunicare. Lo fa per un esigenza personale. Ha vissuto la storia e la vuole donare agli altri. E in maniera particolare è a conoscenza degli stati emotivi che lo hanno guidato per tutto il percorso.
I romanzi che focalizzano maggiormente la loro attenzione sull’interiorità del personaggio (del protagonista, in realtà) hanno un grande vantaggio nell’uso della prima persona. Così come i testi che cercando di creare un profondo interesse emotivo nel lettore (identificazione) fanno vedere il mondo attraverso gli occhi di chi parla. Un mondo distorto, sia ben chiaro, perché ogni informazione è filtrata dall’emozioni non neutrali del narratore.
Esempi di questo tipo di narrazione sono il diario e il romanzo epistolare.
Ancora, come in Conan Doyle, nel tentativo di gestire una situazione esterna, in terza persona, ma situando il lettore al centro della scena. Noi vediamo con gli occhi di Watson. Egli ci conduce nel mondo della Londra vittoriana e ci indica, da una distanza estremamente ravvicinata le gesta del suo compagno. Il vantaggio è quello di essere spettatori: se fosse Holmes a narrare probabilmente dovrebbe rivelarci immediatamente la sua linea di condotta e perderemmo interesse perché i percorsi logici che lo portano alla soluzione del caso apparirebbero meno eclatanti.
Watson ci conduce in prima persona nella scena del crimine, ce ne rende partecipi e ci riempie di dubbi su quello che accadrà. Insieme a lui valutiamo i limiti e gli indizi del caso e ne rimaniamo sconvolti, perché ci rendiamo conto che non andiamo da nessuna parte*04. Quando Holmes però troverà l’indizio chiave, la soluzione del caso, tutto apparirà logico, e l’effetto sarà esaltato. Ma solo perché il nostro racconto non è passato attraverso la sua narrazione*05.
Allo stesso tempo la narrazione in prima persona, sostituendosi al narratore onnisciente, ci mostra solo alcuni aspetti della storia tenendone fuori altri. Ciò che è assente esiste solo nella mente dell’autore*06, ma il lettore non lo scopre se non attraverso artifizi o nel successivo procedere della storia.
Ragione per cui l’andamento generale (ma non è ben inteso una regola obbligata) di un racconto in prima persona è molto lineare: accade un fatto quindi ne segue un altro. Ogni avvenimento è in qualche modo causa del successivo ed effetto del precedente. Chiaramente una struttura così rigida può essere spezzata con l’uso di flash-back o flash-forward che possono dare dinamicità all’azione.
Questo perché la prima persona è in genere usata per l’introspezione, e questa spesso si serve del ricordo.
La prima persona in questo ambito diviene d’atmosfera e di effetto. Ha un grosso impatto e ci guida dove vuole il narratore. Non ci sono dubbi a riguardo. Il lettore è il protagonista. Il mondo è visto in una soggettiva ed è spesso frutto di esperienze passate.
La letteratura gotica e romantica dell’800 ne è un esempio esaltante. Edgar Allan Poe usa la prima persona per introdurre il personaggio, creare un suo background e filtrare il mondo attraverso le manie e le ossessioni dello stesso. Nel racconto “la Sfinge”, ad esempio, l’immagine di una farfalla notturna appare al narratore/protagonista come un mostro mitologico che scala il pendio di una montagna. E questo perché è attraverso i suoi occhi che gestiamo la narrazione. Se la stessa scena fosse descritta dal di fuori si vedrebbe con chiarezza che in realtà il protagonista sta guardando una farfalla a pochi centimetri di distanza. La scena apparirebbe senza significato e non si capirebbe che è stata una distorsione, un gioco ottico, a creare l’illusione del mostro sulla montagna.
Esemplare è il caso di Frakenstain di Mary Shelley. La narrazione è tutta in prima persona, ma si sposta su più piani, giocando con i diversi personaggi. In primo luogo esiste un narratore principale. Egli soccorre un uomo che si scopre essere il dottor Frankenstain. All’interno della prima narrazione se ne apre un’altra. Un lunghissimo flask-back che durerà per tutta la lunghezza del libro ci narra le vicende del dottore.
La cosa sorprendente è che ad un certo punto nella narrazione di Frakenstain interviene lo stesso mostro da egli creato che apre una nuova parentesi narrativa, sempre in prima persona, nella quale racconterà in un suo flash-back la sua storia personale.
La Shelley supera con tre livelli narrativi il limite imposto dalla prima persona. La trovata è geniale ma il rischio è notevole. Il lettore potrebbe perdere il punto di riferimento e perdersi nella narrazione (cosa che nel romanzo della Shelley non accade).
Non si può chiudere tuttavia una trattazione sulla prima persona non parlando di Dracula di Bram Stoker. Nel celebre romanzo, infatti, l’autore conserva i pregi della prima persona ma ne supera i limiti affidandosi all’uso di più narratori. E la cosa è gestita attraverso la formula dei diari. La stessa scena può essere gestita da punti di vista differenti, e con tale metodo si supera anche una delle grandi limitazioni dei questo tipo di narrazione: la durata.
Viene da sé infatti, che un mondo filtrato attraverso gli occhi di una sola persona può essere estremamente difficile da gestire, a meno di essere degli ottimi professionisti. Spesso quindi ci si scontra sulla necessità di ridurre la narrazione, per non renderla trascinata e monotona. Non si possono inserire stacchi, “montaggi”, o digressioni che non siano quelle in cui il personaggio è coinvolto. Quindi è facile perdersi e rischiare di annoiare.

Seconda persona – un breve cenno merita questa seconda tecnica, non molto usata per la verità, che pure ha delle sue potenzialità non indifferenti. Uno degli esempi più riusciti è il romanzo “Le mille luci di New York*07” di Jay McInerney, portato poi sullo schermo da James Bridges con un ottimo Michael J. Fox.
Il limite della narrazione è evidente e la lunghezza del romanzo non può che essere ridotta. È una formula molto diretta, che ti impone emozioni e sensazioni e che si muove quasi esclusivamente in questo ambito. L’azione, quando presente, nasce dall’esigenza di creare emozione diretta, sia essa tensione, compassione, dolore e quant’altro.
In questo caso la storia è vissuta direttamente dal lettore, che si impersona direttamente con il personaggio (si suppone che sia egli stesso, sebbene tutta la narrazione è improntata verso l’identificazione nella sua forma più estrema più che nel tentativo di convincere il lettore che quelle vicende le ha vissute realmente).
Per la sua natura, quindi, la narrazione è generalmente al presente. In alcuni casi può spostarsi al futuro, con l’intento di creare atmosfere particolari (Northanger Abbey, di Jane Austin. All’interno di una narrazione in terza persona: la scena in cui Henry descrive a Chaterine la sua prima notte all’abbazia*08).
Spesso può essere usato come stacco o gestita da un personaggio all’interno di un romanzo in prima o in terza persona.
Altro notevole esempio sono i racconti horror americani del novecento – in particolare le trasposizioni in fumetto – o i racconti con scelta multipla, in cui il lettore è chiamato a scegliere in varie fasi del racconto cosa il protagonista deve fare. In questo caso la seconda persona è una scelta obbligata.

Terza persona – indubbiamente la più sfruttata nel romanzo contemporaneo. Gli esempi sono innumerevoli e le implicazioni nell’uso di questa tecnica sono numerose. La terza persona è il modo più distaccato per gestire la storia, ma allo stesso tempo è quello che consente maggior libertà di movimento. Non si è legati al punto di vista o alla prospettiva di un unico personaggio, ma si può spaziare, si può entrare a piacimento nella mente delle persone, si possono conoscere particolari che i personaggi conosceranno solo in seguito o non sapranno mai, si può addirittura descrivere una scena senza che nessun personaggio sia presente (come il rumore che fa un albero quando cade nella foresta).
La terza persona offre enormi libertà, quindi, ma proprio per questo può essere un arma a doppio taglio. Il rischio concreto è quello di perdere di vista la finalità della storia, la gestione dei personaggi e le caratteristiche e le individualità degli stessi. Uno degli errori più banali che spesso lo scrittore inesperto compie è quello di prendere i personaggi inserirli in una storia e usarli indifferentemente, perdendo di vista l’importanza delle interazioni tra gli stessi e il punto di vista di ciascuno. I personaggi vengono fatti parlare e agiscono a casaccio.
Esistono in ogni caso delle enormi differenze anche all’interno di storie in terza persona e che meriterebbero da sole una trattazione a parte. Per rimanere sintetici diciamo che una fiaba dei fratelli Grimm è profondamente diversa da un opera di Stepehn King, per esempio, così come Tolkien non ha niente a che vedere con Agata Christie. Chiaramente le sfumature tra i tipi di narrazione sono notevoli per tutta una serie di tecniche narrative e di stili che non possono essere semplificati con una semplice teoria della terza persona. Tuttavia gli esempi citati hanno delle caratteristiche a riguardo dell’uso della persona che possono essere sottolineate.
In genere le forme di narrazione che si competono alla terza persona sono tre. Quella del narratore onnisciente che può entrare liberamente nella mente dei personaggi, quella del narratore che conosce un unico punto di vista, generalmente quello del protagonista, quella dell’osservatore.
Nel primo caso il narratore si muove come meglio crede, gestisce i personaggi dall’esterno e dall’interno (conosce i loro pensieri, il loro passato, segreti che non rivelerebbero a nessuno, etc.) ed è a conoscenza di ogni cosa che accade nel suo mondo (l’albero che cade nella foresta)*09.
In Stephen King troviamo spesso questo tipo di narrazione, per esempio. Nei suoi romanzi si arriva a conoscere addirittura le paranoie e gli eccessi schizofrenici dei protagonisti: noi conosciamo i pensieri e le voci che essi sentono. Tipico in questo caso è “IT”.
Ancora più esemplare è J.R.R. Tolkien con “il Signore degli Anelli”. Qui il mondo è gestito a più livelli. Si assiste (specie ne “le due torri”) ad un montaggio in parallelo, in cui più vicende prendono vita. Non solo, per quanto all’interno della narrazione, e perfettamente amalgamata ad essa, assistiamo a descrizioni si popoli e culture, a digressioni storiche, a racconti mitologici. Se si conosce l’opera di Tolkien il motivo è evidente: Tolkien crea un vero e proprio mondo in cui egli è una sorta di Dio. Ben lungi da manie di onnipotenza, tuttavia, egli si dilunga nel “Silmarillon”*10 nei passaggi della creazione del mondo e della nascita delle forze e dei popoli che lo governano.
Tolkien arriva addirittura a concepire una lingua con una sua grammatica, una sua sintassi e un suo lessico. È ovvio che di mondo del genere egli conosce ogni singolo dettaglio e questo traspare ampiamente nella sua opera.
Nella narrazione gestita secondo un unico punto di vista il narratore si sostituisce al protagonista della vicenda e segue la vicenda come se il libro procedesse in prima persona. Niente di quello che accade al di fuori del protagonista viene a nostra conoscenza. Sebbene l’intero romanzo sia in terza persona tutto è filtrato attraverso gli occhi del protagonista.
L’esempio più celebre potrebbe essere il “de bello gallico” di Cesare in cui egli parla di se stesso in terza persona. Ma rimanendo agli autori citati in Stephen King si può citare “il Gioco di Gerald”, vissuto esclusivamente attraverso gli occhi della protagonista (che di fatto è l’unico personaggio presente sulla scena) o per certi versi simile “Misery” dove il mondo viene visto attraverso gli occhi di Paul Sheldon. Quello che passa nella mente di Annie, sebbene evidente vista la sua forte personalità, è comunque filtrato attraverso le emozioni del protagonista. Ancora con Tolkien lo Hobbit si svolge secondo il punto di vista di Bilbo e in pratica non siamo a conoscenza di quello che accade al di fuori della sua presenza.
Le implicazioni di questa tecnica sono notevoli, ma come detto, richiederebbero una trattazione a parte. Basti dire che la maggior parte di romanzi moderni usa questa soluzione, riservandosi di variare di momento in momento il punto di vista del personaggio secondo le esigenze narrative. Esemplare è per citarne uno “Triplo” di Ken Follett. Ma all’interno di uno stesso capitolo o paragrafo il narratore spesso varia da punto di vista a punto di vista, giocando quasi come il narratore onnisciente*11, ma limitando le sue potenzialità di momento in momento.
A cavallo tra questo e l’ultimo tipo narrativo possono essere introdotti i gialli. Aghata Crhistie gioca con Poirot in terza persona e tramite il suo punto di vista ci mostra la vicenda. Tuttavia i fatti vengono allo stesso tempo descritti dall’esterno. Poco ci importa delle emozioni di Poirot e dei personaggi coinvolti, della loro interiorità o delle emozioni del momento. Il protagonista in questo caso è l’intreccio e la soluzione del caso a partire dagli elementi oggettivi della vicenda è ciò a cui il romanzo tende.
In dieci piccoli indiani questo è ancora più evidente, e questo esempio ci porta all’ultimo stile narrativo, quello dell’osservatore esterno.
L’esempio più notevole sono le fiabe. La vicenda viene narrata così come accade. Siamo di fronte a una drammaturgia delle storia, in cui si comunicano sostanzialmente immagini e dialoghi, o descrizioni di ambienti. È ovvio che siamo a conoscenza dei sentimenti che può provare Biancaneve persa nel bosco e di quelli di Pollicino quando si ritrova a tu per tu con l’orco, ma il narratore non si sofferma sull’interiorità dei due, né sul loro passato né sulle loro aspirazioni segrete. Quando lo fa è perché è essenziale allo svolgersi della vicenda. In Cenerentola per esempio sappiamo bene che lei ha dei sogni e delle aspirazioni, e in qualche modo la vicenda si svolge secondo il suo punto di vista e non certo quello della matrigna. Tuttavia la maggior parte di queste informazioni vengono ricavate dal lettore (o ascoltatore, come accade in genere) e il narratore non si sofferma sui percorsi emotivi di Cenerentola o del Principe frustrato che non riesce a trovarla. Le scene ci vengono descritte come accadono, poi è il lettore che trae le conseguenze.
Questo tipo di narrazione, per il modo diretto con cui comunica informazioni è sicuramente il più indicato nella letteratura per ragazzi specie nelle fasce di età più basse. Tuttavia, e specie usato in porzioni di romanzo, ha i suoi risvolti pratici e può servire per mandare avanti delle scene. Specie in quelle nelle quali si vuole sottolineare l’azione e tramite essa risalire eventualmente alle emozioni dei personaggi*12.
Questo tipo di narrazione può essere usata anche nella prima persona. Infatti sebbene il narratore non può sapere con esattezza cosa passa nella mente delle persone che gli stanno intorno, lo può dedurre dalle loro azioni, dalle loro espressioni, dal tono che usano per parlare (come avviene al cinema o a teatro). Tramite queste informazioni è possibile, infatti, comunicare anche il vissuto interno.

L’uso di più forme – quanto detto è vero in generale. Tuttavia spesso all’interno di un romanzo, specie di una certa lunghezza, è probabile che l’autore scelga di introdurre vari momenti narrativi che spezzano l’unità della narrazione stessa e consentono di focalizzare momenti diversi con tecniche differenti.
Uno degli esempi più eclatanti è forse “Il drago volante” di Peter Straub. Qui la narrazione avviene in terza persona sino a quanto, alcuni capitoli dopo l’introduzione, il narratore si rivela essere uno dei protagonisti che sin dal primo momento è stato visto sempre dall’esterno. In questo punto, e nei pochi in cui il narratore ricomparirà, la voce narrante è in prima persona, per poi passare alla terza per tutto il resto del libro. Non di meno il narratore si concede le libertà del narratore onnisciente, introducendo situazioni alle quali non ha mai preso parte e altre ricostruite dal racconto degli altri personaggi con i quali è a contatto.
In qualche modo Graham*13 fa la stessa cosa che ha fatto Stoker con Dracula, raccogliendo testimonianze e riordinandole come narratore esterno. Lo stesso Graham infatti la prima volta che appare come narratore tiene a sottolineare il fatto che molte vicende verranno ricostruite in base a come le ha comprese lui e che quello che dirà dei protagonisti è una sua supposizione, non dandoci quindi la certezza che le cose siano andate esattamente come le descrive.
In IT di Stephen King la quasi totalità della narrazione è in terza persona. Esistono dei momenti, tuttavia, nel quale l’autore introduce quelli che lui chiama “interludi” nei quali a parlare è Mike, uno dei sette ragazzi protagonisti, che inserisce delle parti del racconto in prima persona. Nello stesso romanzo esiste una lunga introduzione in cui la storia passa attraverso un interrogatorio. Qui la tecnica utilizzata è decisamente diversa da quella del resto del libro.
Sempre in IT, verso la fine del libro, Bill sogna e il contenuto del sogno ci viene trasmesso in seconda persona. All’interno di tutta l’opera, comunque, il punto di vista si sposta più volte da un punto all’altro e da un protagonista all’altro*14, fornendo prospettiva diverse della stessa storia.
Si è citato lo stesso Frankenstain, in cui una narrazione in prima persona si sposta verso la terza, in un certo modo, in quanto il narratore principale in realtà sta parlando attraverso la voce di un personaggio che gli è estraneo, il quale a sua volta ne introduce un altro. E questo sempre usando la prima persona.
In conclusione, sebbene la scelta del punto di vista dal quale raccontare una storia è essenziale per scrivere anche solo la prima pagina dell’opera, è essenziale sapere che la narrazione non è un qualcosa di statico, ma può piegarsi alle diverse necessità dell’autore che in definitiva deve comunicare informazioni ed emozioni. Il modo con cui sceglie di farlo deve essere il più possibile vicino a quello che garantisce l’effetto migliore.



Note:
*01 - Robinson nasce in un ambito del tutto particolare: siamo all'inizio del settecento e si stanno gettando le basi dell'illuminismo, la nuova corrente di pensiero che pone l'ingegno umano come luce del mondo. Il romanzo vuole essere un diario - inizialmente spacciato per reale - in cui si mette in evidenza il modo in cui un uomo è in grado di gestire la propria vita modificando l'ambiente circostante (ostile e privo di ogni mezzo della vita a cui Robinson era abiutato). La narrazione in prima persona in questo caso è obbligatoria: deve sembrare il racconto di chi ha vissuto realmente in un isola deserta dopo un naufragio.
*02 - Ma non necessariamente, come in Arthur Conan Doyle dove nelle avventure di Sherlok Holmes è Watson a narrare la storia.
*03 - In genere si sottolineano le emozioni dei personaggi in chiave drammatica: le loro emozioni si intuiscono da come agiscono e da quello che fanno (cfr. nota 9).
*04 - Una narrazione in terza persona presenterebbe la scena in maniera più neutrale. Qui l'intento è invece confondere il lettore e gettarlo nel buio più totale.
*05 - In un racconto di Stephen King è Watson che ci racconta il caso e che alla fine arriva alla soluzione. L'idea è quella di mostrare il percorso che generalmente segue Holmes e di illustrare il momento chiave in cui tutti i tasselli del mosaico raggiungono il loro posto e la soluzione del caso appare evidente. L'effetto suscitato è decisamente notevole.
*06 - In "Ulisse" di Joyce, per esempio, la chiusura del libro è data da un flusso continuo di pensieri che escono fuori dalla testa della protagonista. Lo stream of consciousness, questo genere di tecnica tipica di vari autori di inzio novecento (come per esempio la Woolf), tuttavia non è esclusivo della prima persona.
*07 - "Bright lights, big city", nell'originale.
*08 - Volume II, capitolo 5.
*09 - Questo in generale è vero per qualunque narrazione, in quanto si suppone che l'autore comunque conosca ogni aspetto e dettaglio della storia che crea. Tuttavia cosa egli racconti al suo pubblico è altra cosa. È probabile che Verne avesse delle risposte certe alla fine di "Ventimila leghe sotto i mari" e che egli sapesse esattamente ciò che invece nel romanzo rimane in sospeso. Tuttavia il lettore sa solo quello che c'è scritto e questo è l'elemento chiave che distingue i vari tipi di narrazione.
*10 - Libro che introduce le vicende del Signore degli Anelli, sebbene sia il terzo di un'ipotetica trilogia insieme a "Lo Hobbit"
*11 - Il limite tra queste due forme, in molti caso, è assolutamente sfumato e artificioso.
*12 - Un uomo che scaglia un bicchiere contro il muro, urlando, per esempio è estremamente indicativo di una persona adirata. Lo si capisce anche senza bisogno di scrivere "tizio era adirato". Anzi spesso il lettore preferisce capire quello che accade senza che gli venga detto esplicitamente. Buona parte del lavoro di uno scrittore si basa su questo concetto. Il lettore non è stupido, non c'è bisogno di spiegare tutto quello che avviene.
*13 - La voce narrante.
*14 - L'introduzione dei personaggi all'inizio del libro è paradigmatica. Ci vengono svelati non solo le caratteristiche della vita presente dei personaggi, delineandone con chiarezza caratteristiche e personalità, per quanto anche le vicende passate vengono vissute da differenti punti di vista pur narrando porzioni di storia che in qualche modo si sovrappongono.



Sulla persona e sul tempo: il VERBO
Copyright © 2004 by Fabio Capello

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sulle pagine de "Il Commensale" nel Gennaio 2004

Articolo scritto da:
Fabio Capello

Scrittura creativa: sulla persona e sul tempo: il VERBO (Parte I)
Articolo pubblicato il 01/07/2004


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