A lezione di scrittura creativa da un Re

Qualche consiglio per scrivere buona narrativa horror dal Re del Brivido in persona: Stephen King.

Sarebbe inutile presentare Stephen King, uno degli scrittori più popolari e letti al mondo. All'inizio del suo ultimo libro "On writing" (Sperling & Kupfer, 2001) un manuale di scrittura creativa e anche una sorta di autobiografia letteraria, lui stesso scrive: "Questo è un libro breve perché la maggior parte dei libri sulla scrittura sono pieni di scemenze. I romanzieri, sottoscritto compreso, non capiscono molto di quel che fanno, non sanno perché funziona quando va bene, non sanno perché non funziona quando va male. Ho pensato che più corto fosse stato il libro, meno sarebbero state le scemenze".
Di scemenze, in questo frammento che segue dedicato al dialogo, non ne abbiamo trovate.

Parliamo un momento del dialogo, la parte parlata del nostro programma. E’ il dialogo a dare voce al vostro cast ed è cruciale nel definire i personaggi: solo le azioni manifestano il carattere, ma la parola è subdola, ciò che le persone dicono spesso le rivela al prossimo in modi di cui loro stesse sono totalmente inconsapevoli.
Voi potete informarmi tramite la narrazione pura e semplice che il vostro protagonista principale, Mistuh Butts, non è mai andato bene a scuola, non è mai nemmeno andato molto a scuola, ma potete trasmettermi la stessa nozione, e in maniera assai più incisiva, attraverso il suo modo di parlare... e uno dei punti cardinali del buon raccontare è non raccontare mai una cosa quando la si può invece mostrare:

"Secondo te com'è?" chiese il ragazzo. Grattò nella terra con la punta del bastone senza alzare la testa. Disegnò forse una palla, o un pianeta, o nient'altro che un cerchio. "Credi che la terra giri intorno al sole come dicono?"
"lo non so che cosa dicono", rispose Mistuh Butts. "lo non ho mai studiato che cosa dice questo o quello, perché uno ti dice una cosa e un altro te ne dice un’altra finché ti viene mal di testa e ti scappa l'ammenito."
"Che cos'è l'ammenito?" chiese il ragazzo.
"Ma non la pianti mai con le domande!" esclamò Mistuh Butts. Strappò il bastone dalla mano del ragazzo e lo spezzò. "L'ammenito ce l'hai nella pancia quando è ora di mangiare! Se no sei malato! E la gente dice che io sono ignorante!"
"Oh, appetito", disse placido il ragazzo e riprese a disegnare, questa volta con il dito.

Un dialogo ben congegnato vi indicherà se un personaggio è intelligente o stupido (Mistuh Butts non è necessariamente un idiota perché non sa dire "appetito"; dovremo ascoltarlo ancora per un po' prima di decidere al riguardo), onesto o disonesto, divertente o barboso. Il buon dialogo, come quello di George V. Higgins, Peter Straub o Graham Greene, è una gioia da leggere; il dialogo brutto è mortale.
Di fronte al dialogo gli scrittori hanno diversi gradi di abilità. In questo campo voi potete migliorare la vostra, ma, come ebbe a dire un grand'uomo (per la verità era Clint Eastwood): "Un uomo deve conoscere i suoi limiti". H.P. Lovecraft era geniale quando si trattava di raccontare il macabro, ma come scrittore di dialoghi era uno strazio. Doveva saperlo, perché dei milioni di parole che scrisse, meno di cinquemila sono quelle dedicate al dialogo. I seguenti passaggi tratti da "Il colore venuto dallo spazio", in cui un contadino morente descrive la presenza aliena che ha invaso il suo pozzo, illustra bene il problema che aveva Lovecraft con i dialoghi. Ragazzi, la gente non parla in questo modo, nemmeno in punto di morte:

"Niente... niente... il colore brucia... freddo e bagnato... ma brucia... vive nel pozzo io l'ho visto... una specie di fumo... proprio come i fiori l'altra primavera... il pozzo di notte brillava... tutto quello che è vivo... succhiava via la vita da tutto quanto... nel sasso… deve essere arrivato in quel sasso... arriva dappertutto non so che cosa vuole... quella cosa rotonda che quelli dell'università hanno tirato fuori dal sasso... era dello stesso colore... proprio uguale, come i fiori e le piante... semi... l'ho visto la prima volta questa settimana... ti picchia nella testa e poi ti prende... ti brucia su tutto... viene da qualche posto dove le cose non sono come qui da noi... uno di quei professori ha detto così ... "

E così via in un susseguirsi di informazioni spezzettate e inanellate l'una nell'altra secondo una precisa costruzione ellittica. E’ difficile puntare il dito su che cosa non va nel dialogo di Lovecraft a parte l'ovvio: è ampolloso e privo di vita, infarcito di inflessioni. Quando un dialogo funziona, lo sappiamo. Anche quando non va bene lo sappiamo: stride all'orecchio come uno strumento mal intonato.
Lovecraft era indiscutibilmente uno snob affetto da timidezza patologica (e anche un accanito razzista, le cui storie sono popolate da sinistri africani e da quel genere di congiurati ebrei che tanto preoccupavano mio zio Oren dopo la quarta o quinta birra), quel tipo di scrittore che mantiene una corrispondenza voluminosa ma ha difficoltà a stabilire rapporti personali diretti con il prossimo; fosse vivo oggi, è probabile che la sua Presenza sarebbe più vibrante soprattutto nelle varie chat-room di Internet. Scrivere bene i dialoghi è un'abilità che acquisiscono le persone più inclini a parlare e ascoltare gli altri, in particolare ascoltare, cogliendo accenti, ritmi, dialetto e slang. I lupi solitari come Lovecraft sono spesso carenti in questo settore, lo riproducono male o con la cura con cui si scriverebbe in una lingua che non fosse la propria lingua madre.
lo non so se il romanziere contemporaneo John Katzenbach è un individuo solitario o no, ma il suo romanzo Corte marziale contiene alcuni cattivi dialoghi davvero memorabili. Katzenbach è quel tipo di romanziere che fa impazzire gli insegnanti di scrittura creativa, uno splendido narratore la cui arte è guastata dall’autoripetizione (un difetto curabile) e un orecchio per il parlato che è gravemente ostruito (un difetto che probabilmente non ha rimedio). Corte marziale è un giallo ambientato in un campo di prigionia militare durante la seconda guerra mondiale, un bello spunto che diventa problematico nelle mani di Katzenbach quando entra nel vivo della vicenda. Sentite il tenente colonnello Phillip Pryce che parla ai suoi amici poco prima che i tedeschi del corpo di guardia dello Stalag Luft 13 lo portino via, non per rimpatriarlo come sostengono, ma probabilmente per fucilarlo nel bosco.

Pryce afferrò di nuovo Tommy. "Tommy", bisbigliò, "questa non è una coincidenza! Niente è come sembra! Vai più a fondo! Salvalo, ragazzo mio, salvalo! Perché più che mai ora sono convinto che Scott sia innocente!... Ora siete da soli, ragazzi. E ricordatevi, conto su di voi perché resistiate! Dovete sopravvivere! Qualsiasi cosa accada!"
Si girò verso i tedeschi. "Molto bene, Hauptmann" disse in un tono improvvisamente deciso e straordinariamente calmo. "Ora sono pronto. Fate di me ciò che volete."

O Katzenbach non si rende conto che ogni parola del tenente colonnello è un cliché da film bellici anni Quaranta o ha volutamente utilizzato questo richiamo per risvegliare nel suo pubblico sentimenti di compassione, tristezza e forse nostalgia. In ogni caso, non funziona. Il solo sentire evocato dal brano è una sorta di spazientita incredulità. Ci si chiede se il testo sia mai stato visto da un editor e, in tal caso, che cosa gli o le ha impedito di usare la matita blu. Dato il considerevole talento di Katzenbach in altri aspetti dello scrivere, questa sua limitazione consolida in me l'idea che scrivere bene i dialoghi è arte oltre che mestiere.
Molti bravi scrittori di dialoghi devono avere quello che definiamo un "orecchio" naturale, proprio come certi musicisti e cantanti sono intonati perfettamente o quasi perfettamente per natura. Ecco qui un passo dal romanzo Chili con Linda di Elmore Leonard. Potete confrontarlo con i brani che vi ho proposto di Lovecraft e Katzenbach, notando prima di tutto che qui ci troviamo di fronte a un botta e risposta come Dio comanda e non davanti a un pomposo soliloquio:

Chili... rialzò la testa mentre Tommy diceva: "Tutto bene?"
"Vuoi sapere se rimorchio?"
"Parlavo del tuo lavoro. Come ti va? So che hai fatto centro con Get Leo, splendida pellicola, splendida. Vuoi che te lo dica? Era buono. Ma il seguito... come si intitolava?"
"Get Lost."
"Già, giusto quello che è successo prima che riuscissi a vederlo, è scomparso."
"Non è partito alla grande e lo hanno mollato. lo ero contrario a fare un seguito fin dal principio. Ma quello della produzione alla Tower dice che il film lo faranno, con o senza di me. Mi sono detto, be', metti che mi venga fuori una storia buona ... "

Due uomini a pranzo a Beverly Hills e sappiamo subito che sono entrambi attori. Può darsi che siano fasulli (ma forse no), però li si prendono subito così come sono nel contesto del racconto di Leonard; anzi, li accogliamo a braccia aperte. Il loro dialogo è così realistico che non possiamo non provare anche il colpevole piacere che coglie chi si inserisce e quindi origlia una conversazione interessante. Ci giungono anche, sebbene in pennellate approssimative, indizi sul carattere. Siamo all'inizio del romanzo e Leonard è un professionista esperto. Sa di non dover buttar dentro tutto subito. Tuttavia non veniamo forse a sapere qualcosa del carattere di Tommy quando assicura Chili che Get Leo non è solo splendido, ma anche buono?
Possiamo domandarci se un dialogo del genere sia fedele alla vita quotidiana o solo a una certa idea della vita, una certa immagine stereotipata degli attori di Hollywood, dei pranzi hollywoodiani, degli affari come si trattano a Hollywood. E’ un interrogativo più che lecito e la risposta è: forse qualcosa di artefatto c'è. Ciononostante alle nostre orecchie il dialogo suona autentico; quando è al suo mglio (e sebbene Chili con Linda sia molto piacevole, è lontano dai suoi lavori migliori), Elmore Leonard è capace di una sorta di poesia di strada. L’abilità necessaria a scrivere dialoghi di questo genere viene da anni di pratica; l'arte viene da un'immaginazione creativa che lavora sodo e si diverte.
Come per tutti gli altri aspetti della fiction, la chiave per scrivere buoni dialoghi è la sincerità. Se siete sinceri nel riferire le parole che escono dalla bocca dei vostri personaggi, scoprirete di esservi esposti a una nutrita salva di critiche. Non passa settimana senza che io riceva almeno una lettera incazzata (di solito più di una) che mi accusa di essere volgare, razzista, omofobico, brutale, frivolo, se non di essere uno psicopatico tout court. Nella maggioranza dei casi a mandare in fibrillazione i miei corrispondenti sono brani di dialogo: "Scendiamo da questa cazzo di Dodge" o "Non ci prendono molto bene i musi neri da queste parti" o "Che cosa cazzo credi di fare, pezzo di frocio?"
Mia madre, pace all'anima sua, non approvava le parolacce e le espressioni volgari, diceva che erano "la lingua dell'ignorante". Ciò tuttavia non le impediva di esclamare: "Oh, merda!" se bruciava l'arrosto o si pestava il pollice martellando un chiodo nel muro. Né impedisce ai più di noi, cristiani o pagani, di uscircene con espressioni analoghe (se non più forti) quando il cane vomita sul tappeto buono di casa o l'automobile casca dal cric. E’ importante dire la verità; da essa dipendono molte cose, come ha quasi detto William Carlos Williams scrivendo di quella carriola rossa. Ci saranno i puristi bacchettoni a cui la parola "merda" non piace ed è possibile che non piaccia molto nemmeno a voi, ma certe volte dall'espressione volgare non si può sfuggire: non si è mai sentito di un bambino che corra da sua madre a riferirle che la sorellina ha appena "defecato" nella vasca da bagno. Immagino che potrebbe dire che ha fatto "il bisogno grosso" o "ha sporcato", ma temo che "ha fatto la cacca" resterebbe la scelta più naturale (si sa che il boccale piccolo ha manici grandi).
Dovete dire la verità perché il vostro dialogo abbia le risonanze e il realismo di cui Corte marziale, per quanto abbia una buona storia, è così tristemente carente, ma questa onestà deve essere applicata fino in fondo, cioè anche a quello che scappa di bocca a chi si pesta un pollice con il martello. Se sostituite "Oh, merda!" con "Oh, marmo" per riguardo verso la Lega per la lotta contro la volgarità, trasgredite a una norma del tacito contratto che esiste tra scrittore e lettore: la vostra promessa di dire la verità su come la gente si comporta e parla attraverso lo strumento di una storia inventata.
D'altra parte può benissimo esserci uno fra i vostri personaggi (la vecchia zia nubile del protagonista, per esempio) che esclama "Oh, marmo" invece di "Oh, merda" dopo essersi pestata il pollice con un martello. Saprete come esprimervi se conoscete il vostro personaggio, e noi impareremo di lui (o lei) qualcosa di più, che ce lo renderà più vivo e interessante. Il trucco sta nel lasciare che ciascun personaggio parli liberamente, senza preoccuparsi dell'approvazione della suddetta Lega o del Circolo femminile cristiano di lettura. Comportarsi diversamente sarebbe da vigliacchi oltre che da disonesti e, credetemi, scrivere fiction in America agli albori del ventunesimo secolo non è mestiere per intellettuali vigliacchi. Il mondo è popolato da aspiranti censori e, sotto sotto, mirano tutti alla stessa cosa: vogliono che voi vediate il mondo come lo vedono loro... o ,che almeno teniate la bocca chiusa su quello che vedete voi e che se ne discosta. Sono tutti agenti dello status quo. Non necessariamente gentaglia, ma gente pericolosa, se per caso credete nella libertà intellettuale.
Si dà il caso che io concordi con mia madre: parolacce e volgarità sono veramente la lingua dell'ignorante e i verbalmente invalidi. Quasi sempre, perché le eccezioni esistono, tra le quali certi aforismi volgari ricchi di coloritura e vivacità. "Sono più indaffarato di un uomo con una gamba sola in una gara di calci in culo", "I desideri in una mano, la merda nell'altra, vedi tu quale si riempie prima" sono espressioni che, come varie altre simili, non si addicono ai salotti, ma non mancano certo di forza figurativa. Oppure consideriamo questo brano tratto da Brain Storm di Richard Dooling, dove la volgarità diventa poesia:

"Reperto A: un rustico pene capoccione, un barbaro sorcovoro senza un bruscolo di decenza. Il muscolzone dei mascalzoni. Un tanghero spregevole e vermiforme con un luccichio serpentino nell'occhio solo. Un turco gozzoviglioso che colpisce nelle buie cripte di carne come un fulmine fallico. Un cagnaccio avido in cerca di ombre, umidi pertugi, estasi passeriformi e sonno ... "

Sebbene non sia proposto nella forma del dialogo, voglio citare qui un altro passo tratto da Dooling perché è una dimostrazione dell'opposto: e cioè si può raggiungere un grado di scrittura ammirevole senza far assolutamente ricorso alla volgarità:

Gli montò a cavalcioni e si preparò al necessario collegamento tra porte, adapter maschio e femmina pronti, I/0 attivato, server/client, master/slave. Null'altro che una coppia di macchine biologiche high-end che si apprestano a un contatto a caldo con modem via cavo e al reciproco accesso ai rispettivi processori front-end.

Se io fossi come Henry James o Jane Austen, che scrivevano solo di zerbinotti o di acculturati universitari, non dovrei mai usare parolacce o espressioni volgari; forse nessuno dei miei libri sarebbe stato bandito dalle biblioteche scolastiche d'America e non avrei ricevuto una lettera da un servizievole fondamentalista che vuole farmi sapere che brucerò all'inferno, dove tutti i miei milioni di dollari non mi serviranno per acquistare neppure un solo sorso di acqua. lo non sono tuttavia cresciuto tra persone di quel genere. lo sono cresciuto nella piccolissima borghesia americana e quello è l'ambiente di cui posso scrivere con la maggiore onestà e cognizione di causa. Significa che dicono più spesso merda che marmo quando si pestano il pollice, ma è una condizione con cui mi sono pacificato. Né, per la verità, con essa ero mai stato in guerra.
Quando ricevo una di Quelle Lettere o mi trovo di fronte a una nuova recensione in cui mi si accusa di essere volgare e incolto - come in certa misura sono - trovo conforto nelle parole del verista Frank Norris, che scrisse a cavallo dei due secoli e che annovera tra i suoi romanzi The Octopus, The Pit e Una storia di San Francisco: McTeague, un libro veramente grande. Norris raccontò di appartenenti alla classe lavoratrice nei ranch, nei mestieri umili metropolitani, nelle fabbriche. McTeague, il protagonista della più bella opera di Norris, è un dentista incolto. I libri di Norris suscitarono non poca indignazione generale, alla quale rispose con compassato sdegno: "Che cosa mi importa delle loro opinioni? lo non sono mai stato servile. Ho raccontato loro la verità".
Certe persone non vogliono sentire la verità, naturalmente, ma questo non è un problema vostro. Voi avreste un problema se voleste fare lo scrittore senza voler essere franchi. Il modo di esprimersi, rozzo o elegante, è un indice del carattere; può anche essere una ventata di aria fresca in una stanza che certa gente preferirebbe tenere chiusa. Alla fine l'interrogativo importante non ha niente a che vedere con il sacro o il profano che mettete in bocca ai personaggi della vostra storia; il solo interrogativo è come suona sulla pagina e all'orecchio. Se volete che suoni sincero, dovete parlare in prima persona. Ancor più importante, dovete chiudere la bocca e ascoltare gli altri."



I Consigli di Stephen King
Copyright © 2004 by Paolo Restuccia, Stephen King

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sulle pagine del sito Omero.it.

Articolo scritto da:
Stephen King

A lezione di scrittura creativa da un Re
Articolo pubblicato il 01/06/2004


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