La storia del principe di Sansevero. E delle sue sinistre meraviglie
Raimondo di Sangro, detto principe di Sansevero. Eccentrico, filosofo, astronomo, poeta, scrittore, guerriero, mecenate, inventore, mago, scienziato, alchimista. Un precursore dei tempi, uno scienziato pazzo, un genio, uno stregone malvagio. Il personaggio più misterioso del settecento italiano.
Chi era questo ricco signore che, invece di dedicarsi ai tipici passatempi di ogni nobile dell’epoca come la caccia e il gioco, scelse di immergersi nella lettura di testi alchemici e di chiudersi per ore nel suo studio a effettuare esperimenti mai tentati prima? Perché trasformò una semplice cappella di famiglia in una sorta di Rennes le Château? A Napoli c’è chi ancora si fa il segno della croce quando sente il suo nome, poiché la sua sconfinata vivacità intellettiva lo portò ad alcune azioni deprecabili per arrivare alle mete che si era prefissato. Le cose che la cripta conserva tutt’oggi sono testimonianze che lasciano sgomenti quei turisti che accettano di scendere a dare un’occhiata.
La stirpe dei Sansevero ha inizio nel 1587 con Giovan Francesco di Sangro, primo principe. Raimondo diventa il settimo principe a soli sedici anni, quando muore il nonno Paolo, sesto principe di Sansevero. Antonio, padre di Raimondo e figlio di Paolo, aveva già rinunciato in precedenza al titolo in favore dell’abito sacerdotale. Rimasto vedovo e distrutto dal dolore, si era dapprima tuffato in una vita dissoluta per poi fare ammenda e diventare un ministro di Dio. Quella dei Sangro è una stirpe che ebbe legami di parentela e di amicizia con personaggi importantissimi quali Carlo Magno, numerosi prelati dell’Ordine Benedettino, Innocenzo III e membri dell’Ordine dei Templari, dei Rosacrociani, dei Massoni.
Nato a Torremaggiore (Foggia) nel 1710, Raimondo dimostra fin da giovane uno spiccato interesse per le scienze. Fattosi adulto non esita a entrare a far parte della Scuola Alchemica Napoletana. Diventa Gran Maestro massone e intreccia relazioni con chiunque possa aiutarlo a meglio comprendere i misteri dell’universo. Nel suo palazzo adibisce una grande stanza a laboratorio e comincia a passarci gran parte del giorno e della notte. Questo stile di vita, piuttosto anomalo per un aristocratico, dà adito a sospetti sul suo conto e sulle cose che accadono nella sua casa. Raimondo è un uomo sicuro di sé e i pettegolezzi non lo toccano, anzi, lo spingono verso atteggiamenti sempre più stravaganti. Arriva a farsi costruire una carrozza più larga di quelle comuni per passare a filo nei vicoli di Napoli e dimostrare che il suo mezzo di trasporto è più grande di quello del re. Si sposa e ha cinque figli, ma non sembra curarsi poi molto della famiglia, preso com’è dai suoi studi. Esiste un libretto, scritto forse da lui stesso, che oggi è conservato negli archivi del Vaticano e che riporta gli strani oggetti presenti nel palazzo. Vi è descritta quella che lui chiama la Lampada Perpetua, o Lume Eterno, composta da una mistura di fosfato di calcio e fosforo ad alta concentrazione in grado di bruciare molto più a lungo di qualsiasi lume, i progetti di una carrozza che si muove per brevi tratti senza i cavalli e quelli della prima carrozza anfibia, nuove tecniche per la stampa, nuovi tessuti (tra i quali una specie di seta vegetale) e nuovi tipi di vernici destinate a durare nel tempo. Fu lui a costruire un cannone in lega di ferro quando tutti gli altri erano in bronzo, e fu sempre lui a inventare un fucile a retrocarica, anticipando di molto la rivoluzione delle armi da guerra.
In quel clima da Santa Inquisizione il confine tra il puro studio scientifico e la stregoneria era pressoché inesistente, e i guai non tardarono ad arrivare. Infatti, nel 1751, papa Benedetto XIV, preoccupato dal proliferare di congreghe che sfuggivano al controllo della chiesa, consigliò a Carlo III di emanare un editto anti-massonico. Ancora prima che si scatenasse la vera e propria caccia alle streghe, il principe non esitò a salvarsi dalla rovina rivelando al re i nomi dei fratelli massoni per rendere evidente la sua rinuncia all’ordine. In realtà Raimondo non interruppe mai i rapporti con la loggia napoletana e continuò imperterrito i suoi studi esoterici.
Alla sua morte, purtroppo, i parenti distrussero tutti quei documenti che avrebbero potuto collegare il nome di Raimondo agli ambienti della Massoneria e del mondo dell’occulto. Sono andati persi testi di inestimabile valore, invenzioni che forse avrebbero facilitato e anticipato molte scoperte. Si temevano vendette da parte dei massoni che si sentivano traditi e quindi fu distrutto anche il passaggio che collegava il palazzo alla cappella, un luogo che conteneva un particolare orologio dotato di un carillon a campane.
Percuotendo una serie di tasti si potevano ottenere svariate melodie. Era una sorta di tempietto dedicato a quell’ordine clandestino che, seppur ostacolato da editti e proibizioni, non avrebbe mai cessato di esistere.
La suddetta cappella, che racchiude le spoglie dei membri della famiglia, si trova in Piazza San Domenico Maggiore. Fatta costruire da Giovan Francesco nel 1590 come luogo in cui venerare una statua della Vergine della Pietà che, rispondendo alle sue preghiere, lo aveva guarito da una grave malattia. Per questo, oltre che a essere conosciuta come Cappella Sansevero dei Sangro, lo è anche come Santa Maria della Pietà dei Sangro, o più semplicemente come La Pietatella. Nel 1631 il figlio di Giovanni, Alessandro, eseguì un esteso restauro e la ampliò per farla diventare cappella sepolcrale di famiglia. Ma fu Raimondo il vero artefice della trasformazione dell’edificio. Tra il 1744 e il 1766, quella che in origine era una semplice chiesetta, divenne uno dei luoghi più misteriosi di Napoli.
È un rettangolo che termina in un sontuoso presbiterio. Ai lati diciotto statue accompagnano il visitatore alla scoperta dei simboli massonico-esoterici di cui il luogo è pregno. Raimondo attinse a piene mani dalle sue ricchezze e chiamò presso di sé i più rinomati scultori e pittori perché dessero vita a un progetto tutto particolare.
Gli artisti che lavorarono nella cappella seguirono le precise istruzioni del principe e alcuni di loro riferirono che fornì strani colori e un tipo di mastice che una volta asciutto assomigliava in tutto e per tutto al marmo. Materiali di natura alchemica? Può essere. Il risultato è un piccolo gioiello del tardo barocco, un tripudio di affreschi (i cui colori si sono conservati straordinariamente vivi) statue, stucchi, marmi e oro. Ogni cosa ha un suo preciso significato, un messaggio che è rimasto immutato nel tempo, ed è questo che la rende un luogo enigmatico che rapisce gli occhi e l’anima di chiunque vi metta piede. Le statue sono quasi tutte femminili e rappresentano le virtù fondamentali della natura umana tra cui la forza, la sapienza, la fede. Lanciano il loro messaggio attraverso i vari oggetti che tengono in mano o che giacciono ai loro piedi. Libri, compassi, fiori, cornucopie, caducei (sottili verghe con le ali e due serpenti attocigliati in procinto di baciarsi, simbolo di pace usato da Mercurio per sedare le liti) fiammelle e cuori. Le statue dei genitori di Raimondo sono quelle che più colpiscono il visitatore. Il monumento funebre dedicato a Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, madre di Raimondo, morta quando lui aveva appena un anno, è denominato La Pudicizia e rappresenta una donna nuda coperta da un velo. Osservando questo velo scolpito si ha l’impressione che, pur essendo parte integrante della statua, sia stato steso solo in seguito al completamento del corpo di donna. La lapide spezzata ci ricorda che Cecilia è morta molto giovane, ma sta a indicare anche il sogno cullato da tanti alchimisti, e cioè quello di riuscire a sconfiggere la morte attraverso la creazione di un elisir di lunga vita.
Il monumento funebre dedicato al padre, Antonio di Sangro, è chiamato Il Disinganno. Rappresenta un uomo che lotta per liberarsi da una rete, così come fece Antonio che si ‘liberò’ di una vita dissoluta per dedicarsi a Dio. È anche l’invito a liberarsi di tutti i preconcetti per meglio comprendere i segreti alchemici ed esoterici. Anche qui l’occhio è colpito dal modo in cui la rete avviluppa il corpo e tuttavia non si fonde con esso. Il genietto alato, il globo e il libro rappresentano la conoscenza e la saggezza che aiutano l’uomo a elevarsi a un livello spirituale superiore. Sia il velo che la rete fanno pensare all’uso di quel mastice-marmo descritto da uno degli artisti che contribuirono al restauro. Davvero il principe aveva creato un materiale estremamente malleabile che una volta asciutto diventava uguale al marmo? Oppure, come asseriscono alcuni, la statua fu fasciata con una vera rete di semplice corda e immersa in un liquido che avrebbe cristallizzato la fibra della corda facendola diventare del tutto simile al marmo?
Anche il Cristo Velato (o Cristo Morto) è una scultura che lascia il segno. La corona di spine che giace ai suoi piedi è un oggetto che molti rimangono a osservare rapiti. Lo straordinario realismo dà l’impressione che un vero intreccio di rami spinosi sia stato immerso in uno speciale smalto bianco. La grande lapide del principe è scolpita con i caratteri in rilievo, un lavoro estremamente accurato che si dice sia stato facilitato da qualche strumento all’avanguardia. La prima frase è il sunto di ciò che Raimondo pensava di se stesso: “Uomo mirabile, nato a tutto osare.” Ogni cosa, in questo affascinante luogo, ci parla in un doppio linguaggio: quello religioso-spirituale e quello massonico-esoterico. Niente di ciò che vediamo è stato plasmato, scolpito, decorato e dipinto come semplice abbellimento. Qui ci sono il sapere e la genialità di un uomo che non seppe accontentarsi di quello che la sua epoca aveva da offrire. Ci sono il suo pensiero e le sue convinzioni riguardo il mondo, la vita, l’universo, i poteri della mente e dello spirito.
I suoi molteplici studi ed esperimenti comprendevano anche il corpo umano, ed è soprattutto a causa di questi che si guadagnò la fama di stregone. Chi non è facilmente impressionabile può scendere nella cripta ovale che si raggiunge tramite una scala a chiocciola (che lui volle chiamare Appartamento della Fenice) dove sono custoditi, in teche di vetro, i corpi di un uomo e di una donna che qualche intruglio alchemico è riuscito letteralmente a disseccare, lasciando intatte vene e arterie. Sono vere e proprie Macchine Anatomiche. L’intero apparato cardiocircolatorio che avvolge lo scheletro è stato, in pratica, pietrificato e ancora oggi non è chiaro come sia stato ottenuto un simile risultato. C’è il forte sospetto che i due esseri umani siano stati sottoposti al processo mentre erano ancora in vita. Particolare impressionante è che la donna era incinta. Sono ben visibili i resti del feto ai suoi piedi. La donna ha un braccio alzato, come se fosse stata colta da una paralisi mentre cercava di fuggire. Complice dell’esperimento si dice sia stato il medico palermitano Giuseppe Salerno. L’ipotesi più probabile è che sia stata iniettata una sostanza in grado di cristallizzare vene e arterie. I corpi, in seguito alla morte, si sarebbero decomposti senza che queste venissero intaccate. Il problema è che a quell’epoca le siringhe ipodermiche non esistevano ancora. C’è chi dice che si tratti di povere ossa ricoperte da una struttura artificiale, ma su quale modello si sarebbe basato lo scultore per riprodurre l’intero sistema cardiocircolatorio, se le conoscenze sul corpo umano erano ancora molto scarse? Quel feto smentisce questa ipotesi perché racconta chiaramente di una lenta decomposizione del cadavere della madre: i tessuti cedono, la placenta fuoriesce dalla cavità addominale, scivola verso il basso, cade a terra.
Si dice che il principe rapisse i poveri che vagabondavano per i vicoli di Napoli per usarli come cavie o che, come in questo caso, usasse i servi che lavoravano a palazzo. Un folle che non si fa scrupoli di iniettare sostanze velenifere nel corpo di una donna incinta, o una mente lucida che tenta di scoprire come rendere l’uomo immortale? Non abbiamo neanche mezza parola tracciata su carta dal principe per comprendere lo scopo di questo particolare esperimento. Forse sarebbe saggio astenersi, per quanto possibile, da qualsiasi giudizio lapidario. Non sarebbe difficile aggiungere altri epiteti al nome di Raimondo, specie pensando che era conosciuto anche come il castratore. Un’abitudine molto discussa era quella di comprare fanciulli dotati di una bella voce e provenienti da famiglie indigenti per farli castrare e quindi avviare alla carriera di cantanti. Lo faceva per amore dell’arte, o per mettere in pratica alcuni concetti astratti della Massoneria che vedevano nell’essere androgino la perfezione assoluta? Un’idea puramente filosofica, un’esortazione a rifuggire i canoni dettati dalla società, a non farsi ingabbiare in ruoli prestabiliti, per giungere ad avere un animo compiuto, dotato sia di sensibilità femminile sia di forza maschile. Raimondo era un fervente sostenitore di tale idea o solo un sadico che rapiva fanciulli? Ancora una volta è difficile tracciare una semplice croce sull’immagine di un individuo che sembra un bizzarro miscuglio composto dal genio di Leonardo, dall’ambiguità dell’abate Sonière e, perché no, dal frenetico desiderio di sconfiggere la morte di un vero dottor Frankenstein.
La sua fine, avvenuta a Napoli nel 1771, è avvolta nel mistero come la sua intera esistenza. Forse morì durante uno dei suoi esperimenti a base di sostanze tossiche. Si dice che avesse scoperto una pozione capace di far tornare in vita i morti e su questa diceria è nata una macabra leggenda. Un giorno il principe si dichiarò certo di essere in procinto di morire e istruì un servo a tale proposito. Il domestico avrebbe dovuto tagliare a pezzi il cadavere e chiuderlo in un baule. Nessuno doveva aprirlo prima di un dato lasso di tempo, per dare modo alla pozione di agire e di strapparlo alla morte. Quando il presagio si avverò il servo seguì gli ordini del suo signore e si pose a guardia al baule, ma i parenti che stavano setacciando il palazzo in cerca di ricchezze nascoste lo costrinsero a farsi da parte. Il baule fu aperto e il corpo ancora in via di ristrutturazione si sollevò di scatto. Il principe fissò i presenti con occhi pieni di orrore ed emise un urlo agghiacciante. Poi il cadavere si disfece sul fondo del baule. Forse è una leggenda e forse no. Sta di fatto che nel sarcofago che si trova sotto la lapide della cappella non c’è nulla. Dov’è finito il corpo? Nessuno lo sa. Trafugato dai fratelli massoni? Distrutto da chi lo credeva un discepolo del diavolo? Che il nostro sia uscito con le sue gambe dalla tomba per trasferirsi altrove? In decenni di studio incessante aveva davvero scoperto l’elisir di lunga vita?
Pare che un certo Cagliostro, durante il suo processo, disse di aver appreso alcune pratiche da un principe di Napoli. Non possiamo appurare se si trattasse o meno di Raimondo, dato che gli atti del processo sono ben custoditi dal Vaticano. Tra gli alambicchi e le pile di libri alchemici, alla luce del Lume Eterno, forse Raimondo inventò, tra le altre cose, una pozione in grado di vincere la morte e, in seguito, trovò nel Conte di Cagliostro l’allievo perfetto.
Usciamo dalla cripta e saliamo verso l’alto, nella cappella dei Sangro, l’involucro in marmo e oro dell’anima di Raimondo. È qui che si conclude la nostra singolare storia. La storia di un uomo mirabile, nato a tutto osare.
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