Libri > Recensioni > Hieronymus - Una vita immaginata, di Claudia Salvatori, edito da Mazzotints Ebook nel 2013 al prezzo di 3,49 euro. Leggi la trama.
Weltschmerz.
È una di quelle parole tedesche intraducibili, collocate a metà tra due significati, due sensazioni, due impressioni.
Mi è stato suggerito di tradurlo con il meno noto "senzapelle", ed è stato allora che ho capito cosa abbiano in comune i protagonisti di Salvatori: vivono senza pelle a iper-contatto con una realtà ruvida come la carta vetrata.
Molti conoscono Hieronymus Bosch il Pittore. Rimane in mente per la sua pittura anacronistica, che in uno stile olandese quattrocentesco – di terre e toni smorti – ci ha lasciato quadri simili a incubi lovecraftiani, in cui strumenti musicali e uomini si fondono e copulano, più o meno letteralmente, per la gioia e il patimento di orde di demoni in deliquio.
In pochi conoscono Jeroen van Aken l’Uomo. Scrivere di lui significa spiegare quell’anacronismo, entrare nella mente del visionario e scavare sotto gli strati di apparente follia per trovare un senso – non un senso meno folle, forse, ma che sia almeno capace di ordinare quelle masse di santi e peccatori che si rincorrono e rifuggono a grappoli nei suoi quadri.
Salvatori ha tentato l’impresa.
"L’intero cosmo gli appare da sempre come una medaglia che ha da un lato l’orrore e dall’altro un cappello da buffone."
Il Bosch salvatoriano vive su una corda tesa tra due opposti.
Da una parte c’è il Fango – il fango della sua natale Den Bosch, una squallida provincia ante litteram in cui ogni sogno di grandezza non può che naufragare nella grettezza di un popolo oscurantista.
Dall’altra parte c’è la Luce. La luce di Dio, ovviamente, ma anche la luce di una natura incontaminata, intravista nell’infanzia per brevi attimi e che solo l’arte riuscirà a far sopravvivere, come minuscole braci tenute vive dall’ispirazione.
Ma questi due opposti, in Salvatori, mal s’incastrano nelle categorie di "Male" e "Bene". Salvatori è catara, ma lo è oggi, in un post-modernismo che ha annientato ogni possibilità di suddividere con nette linee demarcatorie.
Il fango di Den Bosch si rifiuta di essere solo fango, bisbigliando a Jeroen che Dio creò l’uomo sputando saliva sulla terra. E così il fango ha non solo una propria dignità, ma addirittura una sua santità. E Jeroen – soprannominato "Jeroen fango, Jeroen merda" – dipinge con la merda – la "sacra merda, la merda sublime" – i quadri che espone in piazza, sotto gli occhi di tutti, da cinico alla Diogene.
Dipinge quel che conosce, e quel che conosce è Den Bosch – con i suoi peccatucci da sottoscala, da tutti conosciuti e da nessuno menzionati. Li dipinge perché ometterli sarebbe ipocrita – e l’ipocrisia è un male ben peggiore dell’innocente lezzo del fango.
Ma c’è un altro motivo – molto meno nobile, molto meno razionale – per cui Jeroen non distoglie lo sguardo dagli orrori (orrori che, profondi come un abisso, non sono forse troppo dissimili dall’Orrore sussurrato dal Kurtz di Conrad, atrocemente e squisitamente umano) che poi popoleranno i suoi quadri: l’inesorabile attrazione suscitata dal mostruoso. E quindi, quando uno Jeroen ancora imberbe si trova a dover attraversare un viottolo che dà su un precipizio, luogo soprannominato "il buco del culo del diavolo", non è semplice terrore quello che prova guardando nell’abisso:
"Lo ha immaginato popolato di animali deformi, mostri e infiorescenze carnivore, quali possono vivere nelle viscere del Dio del Male. Ha immaginato che non si muoia, laggiù, per l’impatto con le rupi o gli spuntoni acuminati, ma orribilmente torturati da demoni cornuti. E dopo la morte si riviva per essere straziati in eterno.
Chiude gli occhi, sicuro e quasi desideroso di precipitare."
Salvatori ha colto il paradosso della vertigine: non la paura ma il desiderio di cadere – e, quindi, ma solo in conseguenza, qualcosa che in noi urla allarmato.
È lo sguardo che non riesce a staccarsi dalla ferita purulenta, dal corpo deforme, da tutto ciò che nella storia è stato etichettato come "demoniaco", "contronatura", "perverso", "deforme".
È l’obbrobrio causato da un "Male" irrazionale, che calamita l’occhio nostro malgrado, e che – al contempo – innesca una repulsione che dialoga direttamente con i sensi, bypassando il raziocinio. È il morboso.
Ed è esattamente quello che troviamo nei quadri di Bosch, frammentati in mille scene ripugnanti e ilari al contempo, dissacranti nel loro rappresentare Inferno e Paradiso partendo dallo stesso "modulo": questi corpi, umani e animali, che si trasformano gli uni negli altri, sia per rifuggire dai tormenti di un Inferno sovrappopolato o per passeggiare in un Eden non meno affollato.
Questa bolgia di carne è, nella vita del Bosch salvatoriano, un’orgia a cui il giovane pittore partecipa in gioventù. Dovrebbe essere un ritrovo di anime pure, antecedenti al peccato, e quindi libere di muoversi nude nel Creato, di copulare senza peccare – ma, ai limiti del campo visivo, Jeroen intravede note stonate: "là, un ragazzo in ginocchio pare assediato da un gruppo di uomini; lì, una ragazza priva di sensi è trascinata dietro una siepe".
Anfitrione di questo Eden imperfetto è uno dei personaggi più significativi del romanzo: Goyart. Goyart che ricorda tanto il Diavolo degli arcani maggiori: onnipotente in Terra come Dio lo è in Cielo. Oltre a essere uno degli uomini più ricchi di Den Bosch, è un Pater Familias che causa la soggezione di un Padre Punitore freudiano. Il suo potere è tale che non si può sfuggirne, né si può ignorare, come è difficile ignorare quel suo aspetto da satiro perennemente giovane e prestante, di una bellezza faunesca ai limiti del volgare, un corpo creato per primeggiare in ogni gara di carnalità.
Jeroen dovrebbe guardare con disprezzo questo individuo che, forte di ricchezza materiale e prestanza, non conosce umiltà. Ma, anche in questo caso, è la vertigine ad averla vinta:
"Prova per Goyart il Vecchio lo stesso sentimento di esecrazione e insieme ne è attratto, come può esserlo dalla fantasia di cadere, dal guizzare del suo pennello quando dipinge l’Inferno."
Salvatori non è né una cinica, né una catara, né una post-moderna – è tutte queste cose, che non sembrano trovare un accordo.
Hieronymus è un romanzo di transizione, che testimonia un passaggio. Da Salvatori prima, scrittrice dalla prosa densa e immersa in personaggi sparati come palline impazzite nel flipper della vita (La donna senza testa, Il sorriso di Anthony Perkins), a Salvatori dopo, che cerca di ricreare in sé un vate ottocentesco, con una terza persona sempre più vicina all’onniscienza (Il mago e l’imperatrice, Il cavaliere d’Islanda).
Così, il romanzo inizia con frasi immerse nell’atmosfera che descrivono ("È un funerale di quelli in cui i morti sono fra la gente che respira. Lui, il morto vero, è lontano. Irraggiungibile come lo è stato sempre anche quando respirava, ma finalmente fuori dalla vista."), in cui i giudizi sembrano uscire dalle bocche presenti, per poi virare, verso la fine, in un narratore per cui il giudizio permane, ma si è fatto onnisciente e normativo ("Poi l’amico di Gehrard van der Vondel continua a fornire a Hieronymus critiche futili e non richieste", corsivo mio).
Se nella prima parte abbonda lo show, che mostra i pensieri e le sensazioni contingenti, mano a mano che il romanzo si conclude il tell prevale, con una prosa che narra sempre meno i fatti e le sensazioni e sempre più i loro significati.
Nel mezzo, è costante la presenza di Bene e Male, impossibilitati a farsi categorie assolute, e fatti vorticare in continuazione – il fango che è di Dio e quindi è bene, l’amata Rose che è narcisista e quindi è male, ma narcisista è anche Jeroen, che è quindi bene o male? – sempre più velocemente, finché la loro sovrapposizione crea un grigio imperfetto, un maculato fatto di bianchi e neri, il disfacimento di vecchie categorie che però non porta ancora a una terza via – sempre che esista.
Salvatori è riuscita nell’impresa?
Forse, paradossalmente, è proprio questa disomogeneità di prospettive e stili (e intenti?) ad averle permesso di parlare sia dell’Uomo che del Pittore. Sia del piccolo imbrattatele senzapelle che subisce i propri simili, sia del grande artista che è riuscito – quasi letteralmente – a tramutare la merda in oro.
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