Libri > Notizie > Simone Corà discute con Fabrizio Vercelli del proprio racconto Tres, contenuto nella raccolta Carnevale, edita da Edizioni XII
Simone Corà (scrittore, editor e blogger sul suo Welcome to Midian) è il sesto autore a raccontare al nostro Fabrizio qualcosa del proprio racconto presente nella raccolta Carnevale (edita da Edizioni XII nella sua collana più pregiata, Camera Oscura), una storia di zombi in quel della Venezia Carnevalesca.
[La Tela Nera]: Simone, la controversa maschera di Bernardon, da te utilizzata per il racconto Tres, sembra fatta apposta per stimolare la tua passione per la mutazione, in questo caso la decadenza, del corpo umano. Un tema che è da sempre parte integrante della cultura dell'Uomo. Esistono ancora dei modi originali e innovativi per affrontarlo?
[Simone Corà]: Non so se si possa parlare di innovazione vera e propria, di originalità – d'altronde non esiste, oggigiorno, qualcosa che non sia già stata letta, vista o sentita, qualcosa che non sia già stata sfruttata o anche solo sfiorata.
Non credo neanche serva, dopotutto, parlare di rielaborazioni, o volersi in qualche modo soffermare su tali aspetti. Ci sono solo, come è sempre stato, idee buone e meno buone, e relative scelte, altrettanto felici o infelici, per determinarne lo sviluppo.
E deve esserci sensibilità, qui cade il peso, la responsabilità: conoscere le basi, saper maneggiare il tema trattato (come appunto può essere la decadenza del corpo umano) quando questo ha una lunga storia di romanzi e film alle sue spalle che lo sviscerano un po' in tutte le salse. Perché evitare le banalità, allontanare i cliché, tenere a bada le facili comodità non sono consigli per scrivere una storia originale, per dire qualcosa di nuovo nella scena fantastica, sono semplicemente aspetti essenziali per scrivere una buona storia.
Con Tres mi sono gettato di pancia nei mondi che più prediligo quando scrivo: l'ironia, lo splatter, la potenziale mostruosità del fisico umano. Elementi di certo non nuovi, elementi che sono stati cardine, con relativi strascichi odierni, di un certo modo di fare cinema negli anni Ottanta, elementi che trovo però paradossalmente perfetti per rinfrescare qualcosa che in fondo, noi fanatici dell’orrore, già conosciamo.
Il tono scanzonato, la sovrabbondanza di sangue e le deformità mutagene, soprattutto queste ultime, sono infatti aspetti che, personalmente, possono sempre garantire un certo grado di interesse, possono incuriosire sia gli scafati del genere sia i neofiti – dopotutto, il mostro è ancora uno dei punti chiave, forse l'archetipo per eccellenza, con cui identificare l'horror, e distruggere, piegare, alterare il corpo umano in altro è tra le filosofie primigenie che hanno creato il genere (dal vampiro allo zombi, dal licantropo al fantasma), sempre di uomo che non è più uomo stiamo parlando.
Nella mia visione orrorifica, è in un maelstrom di simpatiche schifezze che riesco a trovare ispirazione continua per mutare il corpo in creatura informe, regredirlo a mostruosità agonizzante privandolo dell'umanità che lo forma. È nelle secchiate di sangue che trovo fondamenta con cui sostenere mostri, aberrazioni, bestialità assortite. È nello humor nero, forse l'arma più letale a disposizione, che trovo strumento ideale per raccontare il marcio dell'uomo.
E la maschera di Bernardon, un vecchio cencioso e distrutto dai vizi che barcolla chiedendo elemosina, mi sembrava trampolino ideale per dare forma a queste idee.
Questo, almeno, il concetto teorico. Che poi riesca sempre a metterlo in pratica, be', è un altro discorso.
Ricollegandomi quindi alla domanda, la risposta è, a suo modo, affermativa. A patto di non mostrare pretenziosità nella costruzione della storia, ma preferire invece un approccio più sincero, un mantenere i piedi per terra, un’onestà di fondo, un riconoscere le proprie fonti d'ispirazione e le proprie basi di partenza.
Un dettaglio della tavola all'interno della raccolta Carnevale dedicata al racconto Tres:
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