2. Scopo dell'aggressione = vittima dell'aggressione?
Ogni azione motivata è dettata da un determinato fine. Nel caso del movente dell'aggressione, lo scopo primario consiste nel recare danno a un elemento frustrante. Qui si pone la questione relativa alle modalità di selezione delle vittime, nella maggior parte dei casi peraltro estranee all'assassino, seguita poi da quella relativa all'individuazione concreta del soggetto al quale recare danno.
Qual è dunque lo scopo principale dell'aggressione?
Non può essere costituito dalle vittime vere e proprie, poiché generalmente vengono scelte dagli assassini in modo arbitrario, o piuttosto in base a parametri specifici (John Joubert, autore dell'omicidio di due ragazzi, sostenne con forte determinazione di averli conosciuti).
Chiedendo a un serial killer quale sia stato il movente concreto e, subito dopo, a chi abbia voluto realmente nuocere, oltre a "i miei familiari" (madre, consorte...) si ottengono spesso le seguenti risposte: "la società" (Peter Kürten aveva voluto vendicarsi dell'umanità intera, Lenk & Keaver, 1974), "tutte le donne" o "i bambini che non si sono mai sentiti al sicuro all'interno della famiglia".
Le vittime sono perlopiù di sesso femminile, più raramente bambini, di norma dello stesso colore dell'assassino e spesso coetanei (FBI, 1990), mentre gli assassini sono di sesso maschile nell'80% dei singoli omicidi e nel 95% dei pluriomicidi.
I criminali organizzati ("organized") aggrediscono principalmente estranei, scelti però in precedenza sulla base di determinati criteri quali età, aspetto, acconciatura oprofessione.
Il criminale disorganizzato ("disorganized") non opera alcuna selezione, aggredisce spesso in modo arbitrario e non ha un'idea concreta delle sue vittime: "Non è assolutamente intenzionato a conoscere chi ha di fronte e spesso tenta di annullare anzitempo la personalità della vittima, colpendola mentre è priva di sensi e coprendole o deturpandole il volto" (Ressler, 1992).
David Berkowitz confessò che il movente principale dei suoi delitti (uccise 6 donne e ne ferì gravemente altre 6 nell'arco di un anno) "era la profonda avversione nei confronti della madre e sicuramente implicava anche la sua incapacità di relazionarsi con il sesso femminile in modo corretto" (Ressler, 1992).
Un insegnante quarantenne, condannato per aver commesso sei stupri, dichiarò che il suo movente scaturì dal fatto "che era stato ripetutamente terrorizzato dalle sue alunne, in particolare dalle adolescenti, e quindi si era vendicato sulle vittime" (Harms, 1992).
Gli esempi menzionati alludono a un fenomeno comunemente denominato dislocazione dell'aggressione (da Bandura & Walters, 1959). Tuttavia, dal punto di vista del movente dell'aggressione, tale interpretazione non è pienamente convincente.
Kornadt (1982a) ha avanzato invece la seguente ipotesi: la riscontrata generalizzazione dell'aggressività, che concerne anche persone e situazioni in realtà innocue, non sarebbe riconducibile a una "dislocazione", bensì si suppone piuttosto uno sviluppo di schemi interpretativi cognitivi estremamente generalizzati, attivati dall'affettività e dalle molteplici esperienze vissute e interpretate in modo negativo.
Presumibilmente, ciò evidenzierebbe lo sviluppo di un movente di tipo vendicativo assai generalizzato, relativo a pressoché la totalità di persone, situazioni, valori, ecc., nonché utilizzabile a piacimento a livello concreto.
In tal modo si spiega come il processo motivazionale venga attivato concretamente nell'ambito di una situazione frustrante a opera di un elemento frustrante, ma non venga poi messo in atto. La ragione per cui l'azione non viene ancora concretizzata è costituita dai processi inibitori, caratteristici dell'individuo frustrato. Qualora poi l'aggressività occasionale sia diretta a persone affini e meno inibite dal punto di vista criminale, è necessario che tale processo copra un arco di tempo estremamente breve. È sufficiente che gli atti di violenza si manifestino in un secondo momento, affinché il modello di dislocazione non sia più valido. Inoltre, dal punto di vista motivazionale, è necessario elaborare una configurazione dello scopo dell'aggressione astratta ed estremamente generalizzata, "probabilmente nell'ottica di una diffusa ostilità nei confronti dei potenti, delle donne (4), o dell'umanità" (Kornadt, 1982).
Il serial killer Peter Kürten, a proposito dei suoi crimini, fornì il seguente movente: "sono scaturiti da propositi di vendetta. Non ho posto tale sentimento di rivalsa sullo stesso piano della vendetta, piuttosto credo che tale risentimento sia sorto in me molti anni fa." (Lenk & Kaever, 1974).
In cosa consiste pertanto l'obiettivo del movente?
Tutte le ipotesi succitate implicano un'estrema ostilità nei riguardi di un gruppo non suscettibile di un'aggressione diretta (la società, le donne...) associata al desiderio di potere, potere sugli altri e non esclusivamente sulla vittima, potere inteso quale sentimento di potenza, autocoscienza, inattaccabilità, inviolabilità.
Ciononostante, l'ostilità resta la causa di fondo.
3. Esperienze infantili
All'infuori dei criminali classificati inequivocabilmente come squilibrati mentali, i cui delitti scaturiscono da rappresentazioni deliranti (5), per tutti gli altri vale l'interrogativo circa le cause di tali atti estremi, come per esempio quelli descritti precedentemente o, più esattamente, circa le cause della motivazione estremamente aggressiva.
Un'indagine intensiva dell'FBI ha prospettato un quadro generale relativo a 36 serial killer.
Tali criminali sono provenuti tutti da una situazione familiare problematica e hanno ricevuto un'educazione distaccata, violenta e ingiusta (Burgess, 1986):
- 13 di loro hanno riferito episodi infantili di violenza fisica
- 23 di violenza psicologica
- 12 di abusi sessuali
A tal proposito Ressler e altri scrivono: "Il rapporto con la figura materna evidenziato dai soggetti intervistati [serial killer, N.d.A.] era fortemente caratterizzato da freddezza, distacco, insensibilità o negligenza. Essi denotano carenze affettive e assenza di contatti umani".
Eccone un esempio (citazione da Ressler et al., 1993): "Una donna metteva il figlio ancora neonato in una scatola di cartone, gli accendeva la televisione e si recava a lavoro. Più tardi lo metteva nel box, gli buttava dentro qualcosa da mangiare e lo abbandonava nuovamente davanti alla TV, fin quando non rientrava in casa. Un altro bambino ci ha raccontato che ogni sera era costretto a stare solo nella sua stanza e se tentava di andare in soggiorno i genitori lo mandavano via bruscamente e gli gridavano che quella era l'unica possibilità che avevano di restare da soli".
Non si deve quindi ignorare il fatto che già in età infantile è possibile gettare le basi per un'aggressività estrema. A tal riguardo, si rende necessaria un'analisi relativa all'origine del movente aggressivo stesso e in particolare allo sviluppo di un repertorio di atti violenti.
In base alla descrizione dettagliata di Kornadt è necessario "partire da una scala gerarchica di moventi, valida principalmente per l'origine infantile del movente nell'ambito della personalità. Pertanto all'aggressione sembra spettare il compito di svolgere una sorta di funzione di legittima difesa per quanto concerne necessità vitali quali sicurezza, incolumità di fronte a pericoli mortali o morte.
La consapevolezza di poter aver successo all'occorrenza, se non altro con l'uso della violenza, è rassicurante e comporta, in tal senso, la determinazione di un obiettivo generalizzato in questa direzione. Il movente dell'aggressione generalizzato (diverso a livello individuale) così costituitosi è quindi talmente sistematico che si innesca ogni qual volta subentri una circostanza frustrante (in questo senso soggettiva)." (Kornadt & Zumkley, 1992).
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