Serial Killer: definizioni, dinamiche, patologie, modelli (pagina 3)

Serial Killer: Sviluppo Storico

L'assunto di partenza degli investigatori è:
di fronte alla scoperta di un cadavere, e al cospetto di un' ipotesi di omicidio, tutto quello che chi indaga trova a sua disposizione è la scena del crimine.

Non è certo un'invenzione degli agenti dell'F.B.I. la scoperta che la scena del crimine contiene in se stessa la maggior parte delle informazioni che riguardano l'esecutore materiale. Ma è sicuramente a loro che dobbiamo la formazione di un metodo, in cui rientra la figura del "profiler", lo sviluppatore di profili, e una serie di studi che hanno avvicinato le forze di polizia a quella tipologia di assassini che prende il nome di serial killer.

Le tecniche di analisi della scena del crimine sono nate insieme al crimine stesso, ma non c'è dubbio che è all'America che ci dobbiamo rivolgere per informarci sugli assiomi comportamentali che, applicati alle indagini, aiutano a identificare il possibile autore del delitto seriale, spesso con caratteristiche sessuali.

Le indagini scientifiche in direzione criminale sono iniziate presto. Già alla fine del diciottesimo secolo lo svizzero Johann Kaspar Lavatar aveva abbozzato una teoria fisiologica chiamata l'arte della Fisiognomica, attraverso la quale cercava di scoprire come le caratteristiche del volto di ogni individuo ne rivelassero il carattere.

Circa nello stesso periodo Josef Gall rispondeva con la Frenologia, una teoria che prendeva come punto di riferimento la forma del cranio in cerca di conferme sulle inclinazioni di una persona.

Sia la Fisiognomica che la Frenologia erano applicate nello studio dei volti dei criminali vivi o morti in un tentativo di spiegare l'inclinazione al crimine attraverso la lettura di caratteristiche somatiche ataviche. Più specificamente, il binomio sesso-morte era stato messo in evidenza dai pionieristici studi del marchese di Krafftebing, che per primo iniziò a parlare, all'incirca nel 1905-1906, del termine classificatorio " omicidio per libidine".

L'attenzione degli scienziati e del pubblico per gli omicidi privi dei moventi classici si fa sempre più pressante. È proprio la neonata macchina cinematografica che si fa interprete di questo interesse con film del genere de Il gabinetto del dottor Caligaris, del 1920, in cui si narra dei misteriosi omicidi commessi da un pazzo e delle allucinazioni attraverso le quali riesce a giustificare le sue azioni, oppure più tardi col famigerato M. il mostro di Dusserdolf di Fritz Lang (1931), storia di un maniaco manifestamente sadico che uccide bambine. È un ometto ordinario, grassoccio e anonimo, che sgranocchia mele per strada. Si tradirà perché nel raptus omicida che lo prende fischietta sempre la canzone "Grieg", condotta che fa parte di un rituale di azioni che rientrano nel corredo del serial killer.


Serial Killer: il primo profilo di un criminale

Ma il primo, vero profilo di un criminale di cui siamo a conoscenza risale al 1880 e fa riferimento al capostipite e forse alla figura storicamente più famosa del genere: Jack lo Squartatore.

L'autore è Thomas Bond, il medico chirurgo della polizia che fece l'autopsia su Mary Kelly, l'ultima delle vittime dello Squartatore. Bond fu inizialmente chiamato per esprimere il suo parere sulle eventuali abilità e conoscenze chirurgiche dell'assassino: un fattore che gli inquirenti del tempo ritenevano di estrema importanza per l'individuazione degli eventuali sospetti.

Si dilungò nella sua analisi tentando anche una ricostruzione dei molti diversi aspetti del crimine. Nelle sua relazione si legge: "Lo straccio situato in alto a destra sulla testa della vittima presenta tagli ed è saturato di sangue, il che indica che il volto della vittima era stato coperto durante l'attacco". Le osservazioni di Bond erano in generale un tentativo di ricostruzione del comportamento del criminale basati sugli elementi a sua disposizione. Suggerì audacemente che la polizia doveva cercare un uomo calmo, apparentemente inoffensivo, probabilmente di mezza età e ben vestito.

Uno dei compiti principali degli agenti della BSU è quello di dare il loro parere su eventuali collegamenti fra uno o più casi. Bond fece qualcosa di molto simile se non analogo. Incluse nel suo rapporto l'osservazione che le mutilazioni delle varie vittime da lui esaminate (Nichols, Chapman, Eddowes e Kelly) erano della "stessa mano".

Questa affermazione riflette quello che i moderni sviluppatori di profili chiamano "firma", o le tracce di quei comportamenti che il criminale attua per soddisfare le sue ossessioni e che spesso sono comuni a tutti i crimini commessi da uno stesso assassino seriale.
Bond riteneva inoltre che il criminale fosse un uomo di "grande freddezza e coraggio" e, alla fine della sua indagine, concluse che "le mutilazioni sui corpi sono state eseguite da un uomo con nessuna conoscenza o pratica di anatomia o chirurgia, probabilmente l'esecutore non possedeva neanche le conoscenze di un macellaio o di qualcuno abituato a sezionare animali".


Serial Killer: altre analisi comportamentali

Secondo le fonti ufficiali di ricerca, il successivo caso famoso di analisi comportamentale risale al periodo della seconda guerra mondiale, quando l'Ufficio dei Servizi Strategici, (quello che oggi si chiama C.I.A., Central Intelligence Agency) chiese a uno psichiatra famoso, Walter Langer, di produrre un profilo di Adolf Hitler.
Volevano "un genuino esame della situazione della Germania... Se Hitler è il capo, che tipo di persona è? Quali sono le sue ambizioni, cosa compone la sua struttura psicologica, che cosa potrebbe pensare degli americani e che soluzioni potrebbe adottare se le cose si mettessero male per lui".

Le indicazioni di Langer erano ritenute importanti nel caso che Hitler fosse stato catturato vivo e fossero state necessarie alcune indicazioni per un eventuale interrogatorio. Il profilo di Langer escludeva una fuga di Hitler in qualche altro paese, in quanto lui si considerava del proprio "Il Savatore". Escludeva anche evenienze del genere colpo di stato, scontro diretto o morte in battaglia. Le sue previsioni si realizzarono profeticamente quando Hitler si suicidò nel suo bunker insieme a Eva Braun appena appresa la notizia che la situazione di avanzamento delle forze alleate era inesorabile. Questo tipo di "profiling" per scopi militari è stato rinomatamente impiegato per altri conflitti come il Vietnam, la Corea, o la guerra del golfo.

Entriamo nel panorama statunitense e nel nostro campo specifico grazie a uno psichiatra del Greenwich village, il Dott James Brussels, al quale si rivolse la polizia di New York nel 1957 nel contesto delle indagini per i crimini commessi dal cosiddetto "Mad bomber", il dinamitardo pazzo che aveva seminato il panico piazzando 32 pacchi esplosivi nella città nell'arco di otto anni.

Dopo aver esaminato l'imponente materiale del caso, fotografie, lettere che l'uomo aveva spedito alla polizia, Brussel elaborò un profilo che ancora fa parlare di sé per quanto si rivelò corretto fin nei minimi particolari. In esso trasse una serie di conclusioni altamente significative, tra cui il fatto che il soggetto era un individuo paranoico che odiava il padre, era ossessivamente amato dalla madre e viveva in una città del Connecticut.

Suggerì alla polizia di cercare "un uomo robusto, di mezza età. Nato all'estero, cattolico romano. Scapolo. Vive con un fratello o una sorella. Aggiunse anche: "Probabilmente quando lo troverete indosserà un vestito a doppio petto. Abbottonato."
Da alcuni riferimenti presenti nelle lettere si arrivò a ipotizzare che il dinamitardo fosse un impiegato o ex-impiegato della Consolidated Edison, l'azienda elettrica cittadina, e che nutrisse del rancore verso di essa.

Ristretta in questo modo la lista dei sospetti si passò al raffronto del profilo redatto dallo psicologo con l'elenco dei dipendenti della ditta e si arrivò così a George Metesky.

Lo andarono a prendere a casa e dovettero constatare che il profilo di Brussel era inesatto in un solo punto: Metesky viveva con le sue due sorelle. Quando l'ispettore di polizia gli disse di seguirlo al comando, riemerse dalla camera da letto con un abito a doppio petto. Abbottonato.

Per giustificare la sbalorditiva esattezza delle sue previsioni Brussel pronunciò una frase che innescò dal quel momento in poi un processo auto-alimentante che ha portato al perfezionamento scientifico di ciò che lo psichiatra aveva fatto. Affermò che psichiatri e psicologi erano di solito chiamati a fare valutazioni partendo dall'esame di un soggetto per cercare di predirne il comportamento e le possibili reazioni in situazioni specifiche, e che lui aveva invece cercato di fare proprio l'inverso, sforzandosi di dedurre la personalità del criminale interpretando le sue sue azioni.

Il dott. Brussel, che successivamente collaborò con la polizia di Boston per il caso dello Strangolatore di Boston, fu un vero pioniere dell'applicazione della scienza comportamentale nelle indagini criminali su casi di serial killers o di assassini non-convenzionali.

Benchè spesso venga definito deduttivo, il lavoro di Brussel si basa in realtà sul metodo induttivo o anche abduttivo, nel senso in cui lo definiva Bateson: partire dell'osservazione di alcuni fattori specifici per arrivare a conclusioni più ampie, "l'estensione laterale degli elementi astratti".

Durante gli anni '60 un uomo di nome Howard Teten cominciò a sviluppare il suo approccio allo sviluppo di profili mentre lavorava nel distaccamento di San Leandro della polizia della California.
Teten si era formato alla scuola di criminologia dell'università della California, in quel momento molto rinomata. Appena entrato nell'F.B.I. Teten divenne il responsabile di un corso di fondamentale importanza all'accademia nazionale denominato Criminologia Applicata. Il corso fu in seguito ribattezzato Psicologia Criminale Applicata.

A quei tempi il direttore del bureau era il famoso J. Edgar Hoover, un anziano signore conservatore noto per aver preso in mano un'agenzia governativa piena di elementi corrotti che gravava inutilmente sul contribuente americano e avergli dato l'importanza e il rilievo, nonché l'impronta burocratica e gerarchica, che nella sua struttura conserva tutt'oggi.

Le materie psicologiche e sociologiche non erano tenute in grande considerazione nella sua organizzazione dell'accademia nazionale.
Il suo slogan, che divenne anche quello dell'agenzia, era "just facts, please", soltanto fatti, per favore.
Teten però non si lasciò spaventare e continuò con il suo corso insieme ad altri pionieri della psicologia criminale statunitense, come per esempio Pat Mullany, Dick Ault, e Robert Ressler, nientemeno che l'uomo che aveva coniato il termine "Serial Killer".
Decine di allievi assistevano entusiasti alle loro lezioni. Fra di essi, John Douglas.

Finiti i corsi, Ressler, Mullany e Ault proposero a Douglas di rimanere all'Accademia come consulente per il programma. In quel periodo Douglas passò molto tempo a illustrare le tecniche antisequestro e antiestorsione a manager e uomini d'affari, nonché il modo di trattare con i rapinatori ai funzionari di banche.

Nel frattempo Teten e Mullany attivarono un servizio che chiamarono di "consulenza". Strinsero amicizie con le polizie delle giurisdizioni circostanti che si rivolgevano a loro per i casi di omicidio più impegnativi.
Douglas entrò a far parte del gruppo e si adoperò per mettere a servizio delle indagini le sue conoscenze.
Il clima era comunque di tollerata clandestinità, si trattava di colloqui amichevoli dei quali le alte autorità non sospettavano niente.
La prima regola restava sempre: "Non mettete in imbarazzo il Bureau".

Intanto lo spirito formativo dilagava e prima di essere assegnato definitivamente a Quantico, Douglas compì infinite peregrinazioni da Stato a Stato per tenere corsi di quello che adesso ufficialmente si chiama, come il corso originario di Teten, Psicologia Criminale Applicata.
Teten lasciò l'insegnamento e delegò a Douglas e Ressler il compito di portare avanti il suo lavoro.
I due cambiarono l'impostazione di Teten adottando la macro distinzione Organizzato/Disorganizzato.


Serial Killer: la rottura col passato

Il momento di rottura arrivò nel 1978, quando a Douglas e Ressler, eternamente in viaggio, si presentò finalmente l'occasione che da tempo aspettavano. Era un'idea che covavano da molto tempo quella di parlare con quei criminali di cui tanto discutevano, per chiedere il loro punto di vista, indagare le sensazioni che li spingevano a commettere certi atti invece di altri e, ultimo ma certo non meno importante, vedere in che modo giustificavano le loro azioni, a se stessi e agli altri.

ll primo criminale che ebbero l'autorizzazione di incontrare fu Ed Kemper.

Kemper era un tipo decisamente fuori dalla norma. Quasi due metri di altezza, uno sguardo penetrante dietro gli spessi occhiali.
A quattordici anni aveva ucciso a fucilate i suoi nonni.
Mandato dal tribunale che si occupò allora del caso in un ospedale psichiatrico, ci rimase per cinque anni. Quando fu dimesso, sua madre lo prese in casa con lei.

Uccise sei fra studentesse universitarie e giovani vagabonde per poi brutalmente massacrare anche sua madre e un'amica di famiglia.
Paradossalmente, Kemper fu il primo assassino seriale che i due agenti incontrarono ma quello che, in termini di metodologia, permise loro di avere più informazioni e più elementi utili alla formulazione del loro approccio.

Kemper era brillante, aveva un quoziente intellettivo molto sopra la media, quasi da genio. Era una persona disponibile, affabile, di piacevole conversazione. Allo stesso momento era minaccioso, instabile e si percepivano delle "crepe della maschera", come disse proprio Ressler a proposito di lui.

Aveva avuto molto tempo per riflettere sulla sua vita in carcere, e con gli agenti aveva un modo di parlare freddo, analitico, distaccato.
Gli unici segni di cedimento che lasciò trasparire apparvero allorchè raccontava nei dettagli il trattamento che aveva riservato alla madre.
La persona che maggiormente poteva essere accusata come fonte generatrice delle tensioni violente che Kemper espresse poi, non appena riuscì a trovare il coraggio, anche su di lei.

In Edmund Kemper si riscontravano caratteristiche che soltanto più tardi vennero considerate "classiche" della figura del serial killer:

1. Kemper era stato straordinariamente furbo nel portare a compimento i suoi propositi omicidi. Aveva "provato" la parte per molto tempo, aveva analizzato le sue intenzioni, progettato i suoi comportamenti, perfezionato sempre più le sue tecniche (si era spinto così lontano da fare addirittura delle "prove generali", in cui usciva, caricava un'autostoppista, calcolava i tempi...).

2. Era affascinato dalle figure di polizia, seguiva le indagini sul suo caso mescolandosi ai poliziotti che discutevano fra di loro nei bar.

3. La sua escalation di violenza era iniziata da molto piccolo, quando aveva ucciso selvaggiamente tutti i gatti che era riuscito a catturare nel vicinato, torturandoli.

4. I suoi delitti erano evidentemente sorretti da ricerca di autostima e di vendetta verso la società. "Queste ragazze non usciranno mai con te, Ed", si ripeteva. Uccidendole pensava che sarebbero state sue per sempre, esercitava su di loro un potere molto più grande di quanto riusciva perfino a immaginare, essendo completamente privo di esperienze di questo genere.

I due agenti si resero conto che il materiale che avevano in mano scottava per molte ragioni. Era chiaro che un personaggio come Kemper, intelligente, brillante, sicuro di sè, nascondeva trappole di ogni tipo.
Douglas stesso non ha mai nascosto di essersi molto divertito nel tempo che ha passato insieme a lui, pur essendo ben cosciente di quello che Ed aveva fatto.

Gli agenti si resero conto, anche grazie alle seguenti, numerose interviste, che il materiale da loro raccolto doveva subire scremature e selezioni di vario tipo per essere considerato scientificamente valido.
Era chiaro infatti che il contenuto delle risposte degli intervistati fosse materiale emotivo e nascondesse motivazioni, superficiali e profonde, che avrebbero potuto fuorviare il compito classificatorio degli agenti.

Un killer poteva parlare con genuina voglia di condividere con le forze di polizia la sua esperienza per permettere, attraverso lo studio, di capire meglio come si possono evitare o perlomeno circoscrivere i problemi delle persone come lui e l'impatto che queste persone hanno sulla società. Oppure altri potrebbero aver avuto motivazioni del tutto diverse. Per esempio parlare dei propri crimini poteva essere un modo per riviverli attraverso la fantasia e cercare ancora una volta di dimostrare a se stesso e agli agenti quanto era stato "bravo" in quello che aveva fatto. Un'altra occasione per Manipolare, Dominare, Controllare.

Gli stessi criminali avrebbero potuto cercare di approfittarsi delle sessioni di colloquio per ottenere sconti sulla pena, oppure avrebbero mentito semplicemente per il gusto di imbrogliare e depistare ancora una volta le forze di polizia e la società in generale.
Inoltre si sapeva già che tre dei tratti della sintomatologia dello psicopatico erano: continuo negare dei fatti, continuo mentire, continui tentativi di manipolazione.

Ma gli agenti che conducevano le interviste, prima solamente due, poi sempre di più con le aggiunte illustri di Roy Hazelwood e Robert Keppel, fra i tanti, svilupparono una sensibilità e consequenzialmente un metodo che permise loro di utilizzare i dati raccolti dalle interviste completamente a proprio favore.

Dal settembre 1980 gli agenti coinvolti nelle interviste cominciarono a diffondere i risultati dei loro studi, le loro intenzioni, la metodologia da seguire e anche un invito ufficiale a fare quello che in gergo avevano chiamato "prison cruising", una specie di "passeggiate in prigione".
Gli agenti avevano preso infatti l'abitudine di presentarsi nelle carceri senza preavviso, e si era col tempo rivelato il metodo migliore per una serie di ragioni.

I direttori carcerari avevano l'abitudine di non porre i bastoni fra le ruote a un agente federale che voleva fare due parole con un detenuto mentre una richiesta ufficiale di colloquio avrebbe invece destato inutili sospetti. In più i criminali stessi non avevano mai occasione di provare una parte o di avere la sensazione di essere narcisisticamente al centro di una ricerca ufficiale. Erano così spesso più sinceri e più diretti.

Sull'FBI Law enforcement bulletin del settembre 1980 a proposito degli obiettivi di queste interviste si legge:
1. Cosa spinge un individuo a diventare un criminale sessuale e quali sono i primi segnali d'allarme?
2. Che cosa incoraggia o inibisce l'attuazione concreta del crimine?
3. Quali sono le implicazioni relative alla pericolosità del soggetto, alla prognosi e alle modalità di trattamento?

Durante quel periodo vennero svolte moltissime interviste.
Gli agenti parlarono con Arthur Bremmer, Sarah Jane Moore e Lynette Fromme (che avevano tentato di uccidere il presidente Ford) e il loro guru, il famoso Charles Manson. Erano passati dieci anni dagli omicidi Tate-La Bianca, la famosa strage nella villa di Roman Polansky in cui venne uccisa, insieme ad altre persone, sua moglie (che aspettava un figlio), ma Manson era comunque il detenuto più famoso degli Stati Uniti nonché il criminale più enigmatico che si conoscesse.
Douglas e Ressler incontrarono anche lui, in una saletta del carcere di San Quentin.

Nel frattempo il numero della richiesta di profili era passato da cinquanta del 1979 a centodieci del 1981. Il lavoro iniziava a dare i suoi frutti.


Serial Killer: Ressler e Heirens, firma e modus operandi

Essendo cresciuto a Chicago, Ressler era rimasto, come il resto della popolazione, orripilato dal delitto di Susan Degnan, una bambina di sei anni che era stata rapita dalla sua abitazione e poi brutalmente uccisa. Il cadavere era stato rinvenuto tagliato a pezzi nelle fogne di Evanston. Le indagini portarono all'arresto di un giovane, William Heirens, che confessò anche l'omicidio di altre due donne, soprannominato, "The lipstick killer" (il killer del rossetto), perché sul muro della casa di una delle vittime aveva scritto, con il rossetto, la frase "Per amor di Dio fermatemi prima che uccida ancora non posso controllarmi".

Lo intervistò nel carcere di Joliet, nell'Illinois, dove l'uomo era famoso per condurre una vita di detenuto modello dal 1946, addirittura il primo dello stato a conseguire la laurea in prigione.

Heirens negava vigorosamente ogni responsabilità, sostenendo di essere stato incastrato con delle prove false. Fu così convincente che al ritorno dalla prima intervista Ressler si precipitò a consultare di nuovo le prove e il fascicolo nel timore di un clamoroso errore giudiziario, per rendersi poi soltanto conto di quanto era stato abile l'uomo a convincerlo delle sue ipotesi.

Nei seguenti incontri Ressler si comportò in modo completamente diverso e, nonostante l'uomo continuasse a sostenere la sua innocenza, tentò di farlo ammettere quanto in realtà aveva confessato molti anni prima.

Questo caso fu molto istruttivo perché mostrò nella sua inequivocabile chiarezza la capacità di un individuo a lungo isolato con la sua coscienza di formulare risposte alternative al suo operato, vie di fuga mentali, stratagemmi per prendere artificialmente distanza dalle proprie azioni.
L'agente sosteneva che l'atteggiamento di Heirens era genuino, non tentava di imbrogliare nessuno se non se stesso. Probabilmente sarebbe riuscito a passare perfino un test al poligrafo (la famigerata macchina della verità).

Al contrario di Ed Kemper, che aveva di buon grado ammesso i suoi delitti e nei momenti di particolare lucidità anche l'incurabilità delle sue patologie e la sua pericolosità per la società, Heirens si era arroccato dietro le sue posizioni con intransigenza, negando tutto fino all'ultimo.

Un altro intervistato illustre fu Jerome Brudos. L'uomo aveva ucciso quattro donne in sette mesi di tempo, praticando mutilazioni sui cadaveri e in alcuni casi conservando i pezzi dei corpi nel congelatore di casa.

Brudos si fece notare per due aspetti.
Appena arrestato, capito ormai che non avrebbe potuto portare avanti un discorso di infermità mentale, rese alla polizia una dettagliata confessione di tutti e quattro i suoi delitti, ma quando gli agenti andavano a parlarci, era sempre restio a descrivere loro i suoi crimini. Anzi, dichiarava di non ricordare niente in seguito a delle amnesie causate da attacchi di ipoglicemia. Fu utile però parlare con lui perché fornì, sempre per via indiretta, degli interessanti elementi su quello che si chiama Modus Operandi.

Gli agenti Douglas e Ressler trovarono utile usare una distinzione di termini intendendo con "Modus Operandi" le azioni necessarie per commettere il crimine mentre con "Firma" un segno lasciato sulla scena del crimine che contiene elementi per descriverci quello che il killer deve fare per soddisfare le sue ossessioni.

Il punto fondamentale è che la Firma è statica, il killer è obbligato dalle sue stesse compulsioni a praticare il rituale per avere soddisfazione, lasciando così una scia abbastanza chiara dietro di sé. Molto spesso rappresenta la concretizzazione nella realtà delle fantasie di sesso, morte, violenza che l'individuo coltiva durante la vita.

Se il delitto è commesso per dominare o infliggere dolore alla vittima, si parla di "firma" come unico elemento rivelatore della sua personalità.
È qualcosa che ha bisogno di fare.

Il Modus Operandi, al contrario, è dinamico, cioè cambia in corrispondenza all'esperienza, al tipo di episodio, all'umore dell'assassino. È difficile che le modalità criminali rimangano le stesse per la durata di tutta una "carriera".
Se il soggetto riesce a cavarsela per il primo delitto, ne trarrà insegnamento e affinerà la propria esperienza nei crimini seguenti.

Brudos, come Kemper, aveva una insana ossessione per i dettagli e il "miglioramento" di questi fra delitto e delitto. Il primo crimine era infatti avvenuto in circostanze assolutamente occasionali, una venditrice di enciclopedie si era presentata alla sua porta e lui l'aveva prima tramortita e poi trascinata nel seminterrato, dove l'aveva uccisa e fatta a pezzi.
Il cadavere era stato gettato nel fiume Willamette.

Nei delitti successivi Brudos si era "organizzato" meglio, aveva disposto del cadavere in modo migliore, trasportandolo per occultarlo lontano dal luogo del delitto, era stato attento a non lasciare tracce di sé o del proprio operato.

Ancora un altro criminale tristemente famoso che gli agenti incontrarono fu David Berkowitz.

Berkowitz era un solitario, disadattato, che nell'estate del 1976 seminò il panico nella città di New York. Uccideva a colpi di calibro .44 coppiette appartate in auto e poi mandava lettere al capo della polizia nelle quali scriveva deliri senza senso. A causa dell'appellativo con il quale firmava le lettere l'assassino non ancora identificato fu soprannominato "the Son of Sam", e per molti giovani impauriti quella fu la vera e propria "Summer of Sam", l'estate di Sam, dalla quale l'omonimo film di Spike Lee.

Berkowitz non era proprio un serial killer quanto una più genuina personalità omicida.
Aveva iniziato da piccolo. Appiccando fuoco nei dintorni di New York, più di duemila incendi nell'arco di sei anni circa, e poi lentamente spostandosi fino all'escalation che lo ha portato a mietere sei vittime in poco meno di un anno.

Meticolosi diari sono tenuti riguardo alle sue azioni criminose, un classico degli assassini di questo genere: solitari che indulgono ossessivamente in resoconti scritti delle loro imprese. Berkowitz non era un assassino lussurioso, non desiderava il contatto con la vittima, non era uno stupratore e non era in cerca di trofei. Quello che lo eccitava era unicamente l'attuazione del gesto violento.

Spesso si masturbava davanti agli incendi che appiccava e anche più tardi, quando girando incessantemente per le strade di New York non trovava un bersaglio adatto per la sua pistola, tornava sui luoghi delle sue precedenti imprese per rivivere l'eccitazione di quei momenti.

Appena arrestato Berkowitz chiamò in causa l'infermità mentale, sostenendo che il responsabile degli assassini era il cane millenario del suo vicino, che gli ordinava di uccidere.

Dopo varie interviste John Douglas lo condusse ad ammettere che la storia del cane era soltanto una bufala nella speranza di ottenere un po' di clemenza. Una psicopatologia suscita forti sentimenti di rivalsa e vendetta, una malattia mentale tristezza e rassegnazione, e addirittura aiuto e condono. Ecco perché molti serial killer studiano e si esercitano a riprodurre i sintomi e le scene da recitare per essere ritenuti "pazzi".

Ma l'infermità mentale per l'America è un concetto meramente giuridico, non si giudica se il soggetto è pazzo oppure no, ma se nel momento dell'omicidio era o no capace di distinguere il bene dal male.
E Berkowitz, come tanti altri, era perfettamente in grado di farlo.

Come poi si ebbe modo di scoprire, pochi di questi criminali non possedevano la capacità di distinguere il bene dal male in modo tale da permettere loro di scegliere fra i due. L'omicidio in questi casi è sempre una scelta, mai un obbedire a un'ossessione o una compulsione tale da far compiere a questo tipo di criminale gesti di aperta sconsideratezza.

Qui è applicato quello che in gergo si chiama il "policeman at the elbow principle", il "principio del poliziotto alle calcagna", cioè pochi criminali sono così scarsamente in grado di padroneggiarsi in modo tale da commettere un omicidio con un agente di polizia presente vicino. Ognuno di loro è in grado di rinunciare se la situazione gli appare troppo pericolosa; segno inequivocabile di facoltà di scegliere e distinguere.

Nei primi anni ottanta John Douglas seguiva regolarmente più di centocinquanta casi all'anno, e viaggiava per un numero uguale di giorni. Costretto a stabilire priorità, privilegiava i casi di stupro-omicidio suscettibili di evolversi in nuovi delitti.
Ben presto capì che più un delitto era di routine, meno sarebbero stati gli indizi comportamentali a sua disposizione.

Per esempio, i casi di aggressione per strada o di omicidio con un colpo di arma da fuoco presentavano scenari più difficili e meno eloquenti di un assassinio mediante ferite multiple.
Il nome del reparto di Douglas, il Dipartimento di Scienze Comportamentali, cambiò in "Investigative Support Unit", unità di supporto investigativo, poiché, contrariamente a quanto si è spesso pensato, il lavoro dell'unità era unicamente quello di fornire aiuto, attraverso lo sviluppo di profili, alle varie agenzie di polizia che già lavoravano ai diversi casi.

In questa fase aurorale del mestiere di "profiler" Douglas e i suoi collaboratori si basavano su tre elementi fondamentali:
1. Esame del rapporto del medico legale, così da apprendere la natura e il tipo di ferite inferte alla vittima, la causa della morte, l'eventuale presenza di violenza sessuale e la possibile sua natura.
2. Il verbale della polizia. Era molto importante sapere cosa aveva visto il primo agente arrivato sul posto. La scena del delitto poteva infatti essere modificata da lui stesso o da un componente della squadra investigativa. La scena originale, quella che aveva lasciato il criminale stesso, era l'elemento che parlava di più del killer.
3. Fotografie, disegni schematici, direzioni ed eventuali impronte rinvenute. Se c'erano osservazioni da fare, Douglas pregava gli agenti di polizia di scriverle sul retro della foto, in modo da non essere influenzato durante il primo esame di esse.

Anche nel caso che la polizia avesse una lista o comunque dei sospetti in mano, Douglas pregava di consegnarli in una busta chiusa, in modo da non esserne influenzato durante la stesura del profilo.

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Articolo scritto da:
David Papini

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