Una pratica che (pare) si è persa nei tempi
“Uccidete, eliminate, ferite Gallico, generato da Prima, in quest’ora stessa entro la cinta dell’anfiteatro.
Legategli i piedi, le membra, i sensi, il midollo.
Bloccate Gallico generato da Prima, perché non possa uccidere l’orso e il toro né con un sol colpo, né con due, né con tre colpi.
In nome del dio vivo, onnipotente, esauditemi, adesso, presto, presto. Che l’orso lo urti e lo ferisca.”
Non c’è che dire, l’autore di questa maledizione, rivolta da parte di un gladiatore a un altro gladiatore, trasuda una malvagità sfrenata. Come si può ben vedere, anche all’epoca degli antichi romani ci si odiava cordialmente, augurandosi tutto il male possibile. La scritta si trova in una tavoletta di “defissione”, una delle metodiche di maleficio ritenute più potenti dai romani dell’epoca.
In parole povere, attraverso un rito ben preciso, si consacrava alle divinità infernali la persona oggetto del proprio odio: un rivale in amore, un concorrente nelle competizioni sportive (come nel caso riportato sopra), un avversario nei commerci e magari, perché no, anche nella lotta politica; o più semplicemente uno che ci stava sulle scatole in maniera irresistibile.
Era sufficiente una lamina di piombo sulla quale si scriveva il nome dello sfortunato, con una certa cura, affinché la maledizione potesse risultare della maggiore efficacia possibile. Così, e non certo per spirito di pignoleria, si consacravano agli inferi anche specifiche parti del corpo. Di solito la lingua, ma anche le mani, i piedi, orecchie, cervello, polmoni; ultragettonati erano l’intelligenza e l’anima stessa. Il tutto allo scopo di centrare alla perfezione il bersaglio.
Poi si inseriva la lamina in un anfratto, una cavità. Sovente un sepolcro, più di rado un pozzo, oppure un tempio o una sorgente d’acqua calda. Del resto è noto, le divinità degli inferi stanno “sotto”. Alla fine del procedimento, la lamina veniva saldamente assicurata mediante un lungo chiodo che la attraversava tutta.
È probabile che, per soprammercato, oltre alla perfetta messa in opera della maledizione venisse anche intrapresa un’azione maggiormente persuasiva, e cioè una violenza fisica, magari spinta fino al delitto. Oggi lo si definirebbe un “opzional”.
Ma concediamoci un altro distillato del più puro odio che si possa provare.
“Dèi infernali, io vi do, se in voi c’è qualche santità, e vi consegno Lichene, serva di Cariso, e che fallisca in tutto quello che fa. Dei infernali, a voi do le sue membra, il colore, il viso, i capelli… (e qui assistiamo a una lunga elencazione delle più svariate parti del corpo che termina con:)… le piante dei piedi, le dita dei piedi. Dèi infernali, se la vedrò putrefarsi, vi offrirò molto volentieri un sacrificio.”
Dunque la società romana era permeata da diffuse quanto radicate forme di superstizione?
Pare di sì, visto che lo stesso Silla aveva promulgato una legge (nell’81 a.C.) per cercare di arginare il diffusissimo fenomeno della magia esercitata con assassini: la lex Cornelia et veneficis.
Eppure conoscevamo il cittadino romano come una sorta di stoico, capace di immolarsi sulla spada, o di farsi uccidere da uno schiavo, se ammalato senza speranza. Ma quest’uomo nasceva in un mondo magico pieno di superstizioni e credenze di varia natura. Col trascorrere del tempo diveniva adulto, poi pater-familias, e infine vecchio, ma certe suggestioni non lo abbandonavano mai. E alla premurosa e costante presenza dei Mani (sorta di spiriti degli antenati) si affiancava il terrificante mormorare delle lamia (spaventose entità femminili che vagavano di notte), o il ruggito notturno degli uomini lupo, così come d’altro canto temutissime erano le influenze malefiche dei gufi, mentre veniva data fiducia pressoché illimitata ai presagi, in particolare a quelli che rivelavano abnormità nei visceri degli animali sacrificati.
Altri tempi, saremmo tentati di ironizzare.
Ma davvero, oggi, le cose sono tanto diverse?
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